Appunti su Giulio Cesare Croce e la letteratura carnevalesca
tratti dalla Maschera di Bertoldo di Piero Camporesi e integrati con mie annotazioni
di
Alberto Natale
La deformazione grottesca e caricaturale in Croce è figlia del grottesco carnevalesco (non è deformazione mirante a scavo psicologico) e della deformazione iperbolica.
Ciò è evidente sia nel gigantesco (Il gigante Sgarmigliato) che nel suo rovesciamento proprio del processo di gulliverizzazione (Vita e morte dell'homo piccinin). Altri ritratti caricati sono quelli del Trematerra, di Madonna Tenerina, di Madonna Ruvidazza, di Madonna Disdegnosa, del "bravo" Smedulla Uossi, delle vecchie laide e repellenti ancora perse in vagheggiamenti amorosi (Una vecchia mi vagheggia).
L'attività del Croce "rimase sempre un prodotto fabrile, seriale, meccanico, ... manufatto artigianale, arte applicata, 'lavoro senza gloria', ripetitivo di antichi, collaudati modelli cari al gusto popolare... Alle sue spalle c'è l'immensa riserva del non scritto, del raccontato, del narrato, del cantato, del ripetuto o dell' 'arrangiato' e del 'variato'. C'è, in una parola, la grande selva della cultura folklorica ch'egli riproduce e porta alle stampe, variandola, ove occorra, con nuovi stratagemmi e artifici da letterato popolare 'inculturato', ma abbastanza vicino alla soglia dell'acculturazione, come del resto il suo Bertoldo" (La maschera di Bertoldo, p.41).
La prospettiva del mondo, secondo l'occhio del Croce, è tutto un intersecarsi di contrasti e d'opposizioni e la vita si svolge in un clima di conflittualità permanente.
Bertoldo scaturisce dal mondo capovolto, dal "mondo alla roversa", mondo caotico, confuso, senza legge né ordine, dominato dalla logica dell'inversione e dell'opposto.
Croce era fedele a una filosofia della storia che vedeva susseguirsi generazioni di uomini sempre più squallide e decadute, sempre più lontane dalla felicità primitiva (età dell'oro) e guaste dal progredire d'un mondo sempre più ottuso, brutto, ignobile, senescente (età dell'oro = paese di Cuccagna).
Croce, portavoce dell'imagerie folklorica, nutre una particolare predilizione per tutto ciò che è "mostruoso", "smisurato", eccessivo, iperbolico. Così il gigante Sgarmigliato, l'inedito Vita di Brogonico selvaggio, un gigante dal corpo caotico e sregolato (grottesco), così Giandiluvio da Trippaldo (Vita di Gian Diluvio da Trippaldo, che significativamente, nel manoscritto autografo è "Zan Trippaldo", incarnazione dello "squaquaratissimo et sloffeggiantissimo" signor Carnevale (B. Cochi, s.a.).
Se nel carnevale, col comico e col riso ritualizzati, il mondo e la comunità si rinnovano e si purificano; e se con l'esplosione degli istinti, per mezzo dell'inversione e dell'esorcismo del riso, si ottiene il risultato di rilegittimare la norma sovvertita, la sicurezza violata, il senso collettivo turbato dagli "eccessi" e dai "furori" esige altre formule rituali: lo "spettacolo di giustizia". Il potere secolare e religioso ne governano la liturgia e il patibolo diventa 'santuario penale'.
Cosciente dell'ineluttabile esistenza di due realtà sociali diverse, di due culture separate e ostili, Croce riserva trattamenti diversi nel cantare le gesta criminali: scivola nel patetico quando il condannato appartiene all'élite, ma partecipa al cinismo ilare che sospinge il delinquente fuoriuscito dalla plebe verso il patibolo. Nel mondo insicuro, nella società minacciata, nella cristianità assediata, nella città insidiata da "tagliacantoni" e bazzicata da pericolosi "graffignanti", "agazzatori" e "rampinanti" (Lamento di Pontichino) la casa diventò un feticcio-rifugio, contrapposto alle inquietanti selve, tane di banditi, grassatori e homines sylvestres, autentici mostri. Croce lo farà dire a Bertoldo, partecipando all'ansia cittadina piccolo-borghese che ci dice come i tempi stiano cambiando, come le case del contado, con i loro usci sempre aperti, non siano proponibili in città dove la casa deve essere una fortezza-rifugio, con la porta sempre chiusa e ben sprangata, metafora della fine dell'ideale contadino della reciproca solidarietà. "Chi sarà come il riccio starà sicuro in casa" (Bertoldo e Bertoldino, p.144, Firenze, Le Monnier, 1951, a cura di Luigi Emery). Tuttavia l'uomo riccio insieme con la sua città avrebbe dovuto fare i conti con i problemi legati all'accentramento urbano: le carestie, le malattie e le pestilenze, la criminalità endemica, potenzialmente confinante con il proprio rifugio, la povertà assillante e derelitta dei miseri e degli accattoni, utile paravento anche per chi fosse in cerca di illecite opportunità.
Se l'uomo riccio non va più per il mondo allora sarà il mondo a visitarlo a domicilio, attraverso i resoconti dei prodigi avvenuti in terre lontane. Lo stesso campionario criminale cittadino acquista sapore esotico: compilatori anonimi e stampatori di residui tipografici lo diffondono. Il crimine diventa notizia, l'efferatezza cronaca nera.
Croce ha una visione della povertà in sintonia con quella "moralistica, retorica e mistificatoria della Chiesa e l'ideologia della classe senatoriale bolognese legata sia alla grande proprietà terriera sia al profitto mercantile; da buon cantastorie integrato il Croce spezza una lancia nei confronti dell'interclassismo e diventa predicatore di pace sociale" (Camporesi, p.76).
Dalla paura della predazione degli scorridori il povero, secondo Croce, non ha nulla da temere: "va per il viaggio il povero felice, / senza temer né ladro, né assassino, / cantando sempre, e se gl'incontra dice: / "Fratelli, addosso non tengo un quattrino". (Grandezza della povertà. Opera morale Di Giulio Cesare Croce. Nuovamente posta in luce, Bologna, Bartolomeo Cochi, 1620.
Croce è il portavoce della classe artigianale cittadina e fedele al cliché identifica nel villano "malizioso e pien d'inganno" "dal cor maligno e fello" la causa più probabile dei disagi e delle carestie urbane, sposando la discriminazione socio-economica che sta all'origine della satira contro il villano (La cantina fallita. Nella quale, come in atto di Comedia s'odono tutti gl'instrumenti di essa esclamare sopra il prezzo dell'uva, il quale per esser asceso tant'alto quest'anno, ha causato, ch'ella è restata senza bere, Bologna, Bartolomeo Cochi, 1620, p.19).
Nelle selve si annidavano feroci predatori umani, 'semplici' assassini di strada o bestiali homines sylvestres come il "perfido villano maladetto" Arrigo Gabertinga, uomo sanguinario e bestiale che imperversando nelle valli trentine era accreditato del trucissimo primato di assassino di 964 persone e che fedele al suo cliché di uomo "salvatico" e "furibondo" include nel macabro conto anche sei dei suoi figli ottenuti da una donna rapita, sequestrata e schiavizzata, Un orco, un demonio, come la descrizione fisica fatta da Giovanni Briccio chiaramente ci mostra.
Come nel Bertoldo anche la vena da paese di Cuccagna che compare negli Avisi burleschi del Croce sembra scaturire dal genere delle farse teatrali carnevalesche (recitate nelle aie e nella stalle) in cui il dialogo non esiste o è pura apparenza: un pretesto per buttar giù spropositi, sproloqui, giochi di parole, facezie, indovinelli, proverbi. Al tempo stesso è evidente l'ascendenza burchiellesca nel costruire lambiccati "capricci" e "grotteschi", spesso aggrovigliati e strampalati, secondo una moda che l'ultimo scorcio del '500 aveva rinverdito, "bizzarrie sotto metafore" come quelle che l'Arcimboldi in quegli stessi anni produceva a beneficio della meraviglia. Artifici ai quali il Croce ben attendeva sulla scorta della sua disinvolta conoscenza di una dozzina di dialetti e sulla capacità, quantomeno, di orecchiare diverse lingue straniere.
E' la stagione delle stampe e della tipografia popolare, o meglio popolareggiante, dei "tomi grossi quattro carte l'uno" stampati sovente "dagli appaltatori della bugia", dai "compilatori di cose meravigliose", vere e proprie figure professionali.
"La marea crescente degli straccioni e dei vagabondi, l'ondata pauperistica, sempre più incalzante nei duri anni della carestia e della fame, entra prepotentemente nelle tele dei pittori e degli scrittori-pittori come il Briccio e il Bocchini, invade la scena dei guitti, penetra nelle commedie scritte, si cala nelle stampe vendute dai ciechi e dai gobbi giramondo, dai guidoni senza casa e senza letto. Passano fra le mani dei 'semplici' lettori lamenti d'impiccati, cantilene d'ebrei suppliziati, raccapriccianti relazioni di malvagità stregonesche e pronostici d'astrologi, notizie di prodigi e d'apparizioni di mostri" (Camporesi, pp.98-99). a questo elenco vanno aggiunte le notizie di catastrofi, terremoti e inondazioni.
Croce aderisce al genere dalla cronaca nera alla Cosmografia poetica. Ma mostra anche il gusto della parodia del meraviglioso con gli Avisi burleschi venuti di qua di là, di su e di giù e con gli Avisi burleschi di diverse città del mondo, lunatici e cuccagnensi, oppure mostra cinico scherno, in condivisione con i gusti del pubblico, sul destino dei malviventi giustiziati e suppliziati (Pontichino, Andrea Gallo, Carotta, etc.).
Affiora la lingua "zerga" da un mondo canagliesco e sovente patibolare di banditi, pitocchi, furfanti, leccardi, balordi, "aggazzatori", di gente che vive "alla furfa" e "alla squarcina", umanità rappresentata dal Croce nella Tremenda e spaventevole compagnia de' tagliacantoni; un "tagliacantone e spezza cadenazzi" entra in scena ne Le tremende bravure del Capitano Belerofonte Scarabombardone da Rocca di Ferro, composta dal Croce nel 1596.
La prigione Croce l'aveva conosciuta di persona, come ci racconta nella sua Descrizzione della vita del Croce: del resto era difficile starne lontano e le porte delle prigioni erano sempre pronte a spalancare la loro umida bocca sui figli della "plebe, roza e sciocca". La prigione senza "letto" né "lettiere", né "tavole" e con gli arnesi del tormento sempre ben visibili, il "foco", la "stanghetta", la "capretta", l' "eculeo", il "cavalletto", la "sveglia" (Due capitoli uno in lode e l'altro in biasimo della prigione di G.C. Croce Biblioteca Universitaria di Bologna ms. 3878 T. I n.11, editi da Vecchi, Poesia popolareggiante cinquecentesca. Capitoli inediti di G.C. Croce, in "Convivium", N.S., XXII (1954), pp. 316-23. Editi in seguito da Michelle Rouch, G.C. Croce - Ouvres poétiques, Paris, 1969, pp.413-22).
L'ombra del patibolo è sempre in primo piano e frequenti, nel linguaggio cinque-secentesco, le espressioni riguardanti le impiccagioni, alcune in linguaggio furbesco ("sbasire la fune", "aguinzare", "andare in Picardia") o in linguaggio di piazza ("andare a dar di calci al vento" [Croce, Descrizzione della vita], andare "in piazza a far linguino" [Lamento di Pontichino]. Nel Bertoldo lo sbirro esita a sostituirsi al villano nel sacco per paura che scoperto gli "facessero tirare il guindo" o fare "il saltarello del groppo".
"La 'provincia' in cui nacque Bertoldino è la sconfinata contrada del folklore e dell'imagerie popolare, il fermentante calderone del grottesco, del mostruoso, dell'insolito, dell'iperbolico, la terra da cui nascevano miti, leggende, fiabe, allegorie smisurate; il suo mondo è quello di Cuccagna e di re Panigone, l'universo carnevalesco dei pazzi e delle maschere, dei nani e dei giganti, dei nasuti e dei ventruti, l'universo corporale della pancia e dei visceri, del mangiare e del dormire, della soddisfazione dei bisogni primari" (Camporesi, p.131). "Il tempo in cui vive è il tempo carnevalesco nel quale si attua la "sospensione del tempo profano, la realizzazione paradossale di una coesistenza del passato e del presente". Il caos mentale di Bertoldino viene a coincidere col disordine e col caos di Carnevale che annulla la legge del tempo" (Camporesi, p.131).
Il mondo di Carnevale sprigiona i suoi mostri umani e la giustizia terrena, il 'santuario penale', altro non sarebbero, in questa prospettiva, che la restaurazione quaresimale dell'ordine.
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