Barbari benefici o Apocalisse

di Alberto Natale

Cfr.



2 - DALLE FANTASIE DISTRUTTIVE AL «DESERTO DEL REALE»

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2.1 Lo spettro dell’atomica

2.2 «Senza desideri né coscienza

2.3 «Voglio fare un botto che si ricorderà per anni e anni»

2.4 Immaginare il possibile: il genere fantascientifico

2.5 James G. Ballard e la “tetralogia degli elementi”

2.6 «Benvenuti nel deserto del reale»: da Matrix all’11 settembre

2.7 La «terribile bellezza»

2.8 «Il Ground Zero del godimento»


2.1 Lo spettro dell’atomica


Nel decennio 1970-1980 vengono prodotti in Italia numerosi romanzi particolarmente intrisi di sentimento catastrofico e vocazione apocalittica. Uno studio di Bruno Pischedda, La grande sera del mondo, ne fornisce un’esauriente rassegna, spaziando tra opere note e meno note e fra scrittori più o meno significativi. Al centro di tali narrazioni si mescolano temi diversi come l’avverarsi delle funeste profezie dell’olocausto nucleare, la disgregazione completa delle relazioni sociali e culturali, le spinte compulsive della società di massa e dei consumi verso l’appiattimento e la destrutturazione dei rapporti personali. Si propongono come sfondi ossessivi la perdita di autenticità, la solitudine dell’individuo, il violento sradicamento della società tradizionale ad opera della modernità, ossia il trionfo della cultura dell’“ordigno”, parafrasando l’immagine di Italo Svevo. Temi diversi, ma accomunati da un denominatore comune che si potrebbe definire “antimodernismo catastrofico”, in cui la metafora ricorrente è quella del “deserto”, il luogo comune dello scacco e dell’azzeramento dell’esperienza umana Si va dall’allucinata nostalgia nazista di Dante Virgili (La distruzione), densa di veleno e odio incontenuto, al funerario e dolente sguardo su una realtà di provincia in disfacimento, descritta con implacabile precisione “giuridica” da Salvatore Satta (Il Giorno del giudizio ); dalla tormentata analisi dei vizi mortali della modernità, trattati da un Pier Paolo Pasolini sempre più disilluso (Petrolio), allo sfacelo della vita famigliare e alla perdita irreversibile degli affetti, affrontati con appassionato dolore da Elsa Morante (Aracoeli). Si narrano e si descrivono gli scenari apocalittici e le conseguenze post-nucleari in Dissipatio H.G. di Guido Morselli (dove H.G. sta per “humani generis” e in cui l’unico sopravvissuto è il protagonista aspirante suicida) e nella “trilogia atomica” di Carlo Cassola (Il superstite; Ferragosto di morte; Il mondo senza nessuno ); con Paolo Volponi (Il pianeta irritabile) si profetizza infine un mondo privo di umani, benché capace di rigenerasi, producendo nuove aggregazioni vitali.

Un decennio, come si può vedere, di intenso pessimismo, un «buio disagio neoromantico», secondo una definizione di Pischedda, nel quale la modernità cessa di rappresentare un progetto incompiuto e si rivela come un’illusione tragica, un’irreversibile frantumarsi della civiltà, uno sciagurato punto di arrivo e di non ritorno da cui si può contemplare soltanto il deserto sterminato che ci circonda.

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2.2 «Senza desideri né coscienza»

L’antologia curata da Daniele Brolli, Gioventù cannibale, pubblicata nella collana “giovanile” di Einaudi nel 1996 (“Stile libero”), nasceva come un proposito editoriale che mirava a rinverdire il cliché di letteratura generazionale, che in anni precedenti aveva portato alla luce un’idea di Pier Vittorio Tondelli , il “Progetto under 25”, il cui scopo principale era dare voce a giovani scrittori e che si concretizzò nella pubblicazione di tre volumi: Giovani Blues, Belli & Perversi, e Papergang, editi rispettivamente nel 1986, 1987 e 1990. In realtà il progetto mirava ad agganciare un pubblico sentito come sempre più disperso, ed eterogeneo, composto da «vecchi ragazzi elettrici desiderosi di un nuovo inizio, studentesse in metropolitana, nobildonne in esilio permanente e giovani famelici solitari urbani, ancora in cerca di una tribù», attraverso «un mix di suggestioni underground» e con l’intento di produrre «un’antologia dell’orrore estremo», un sasso da scagliare nel panorama editoriale italiano e una risposta, al tempo stesso, al travolgente successo del buonismo zuccheroso di Susanna Tamaro (Va dove ti porta il cuore), uscito appena due anni prima.

Organizzata in tre sezioni, Atrocità quotidiane (Seratina, di Niccolò Ammaniti e Luisa Brancaccio ; E Roma piange, di Alda Teodorani ; Il mondo dell’amore, di Aldo Nove ; Cappuccetto splatter, di Daniele Luttazzi ; Diamonds are not forever, di Andrea G. Pinketts ), Adolescenza feroce (Diario in estate, di Massimiliano Governi ; Treccine bionde, di Matteo Curtoni ; Cose che io non so, di Matteo Galiazzo ) e Malinconie di sangue (Il rumore, di Stefano Massaron ; Giorno di paga in via Ferretto, di Paolo Caredda), l’antologia narra di sesso e di sangue, di notti sfrenate tra droghe e sparatorie, modelle squartate, pensionati omicidi, ragazzi che si evirano guardando film porno, con un linguaggio che mescola in maniera indissolubile cinema, musica, pubblicità, televisione, fumetti e videogiochi.

Al di là della maggiore o minore volontà degli autori di rovesciare i luoghi comuni del sentire e del linguaggio (facendo ampio uso del parlato giovanile – in presa diretta, gergale, eccessivo) con abbondante sfoggio di humour nero, rovesciamenti parodistici e splatter ironicamente compiaciuto, si tratta di trovare risposte almeno embrionali alla domanda che lo stesso curatore si pone nell’introduzione della raccolta, e cioè: che cosa accade e che senso assumono le narrazioni «quando il male si rivela come scaturito dall’assenza, dalla completa mancanza di determinazione, originato da individui senza desideri né coscienza che iniziano a scorazzare in lungo e in largo, per il globo producendo dolore e morte?»

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 2.3 «Voglio fare un botto che si ricorderà per anni e anni»

Nello stesso anno di Gioventù cannibale Niccolò Ammaniti pubblica la raccolta di racconti Fango, significativamente posto sotto l’egida di tre epigrafi rispettivamente di Manzoni, del gruppo musicale Almamegretta e di Braccio di ferro . In essa compaiono ovviamente gli stessi temi di Gioventù cannibale e le stesse fonti ispirative, tra le quali, ovviamente, la letteratura “pulp” americana e soprattutto il film di Quentin Tarantino, Pulp Fiction. Le tematiche apocalittiche assumono pertanto connotati parodistici e vengono presentate con disincanto divertito. Nel lungo racconto, L’ultimo capodanno dell’umanità, la catastrofica esplosione di un intero e nuovo complesso residenziale romano è il punto di arrivo di un intrecciarsi grottesco fra le vicende personali di svariati protagonisti, tutte invariabilmente crude, mediocri e spregevoli, intrise di spaccati umani mai commendevoli e sempre rigorosamente improntate di fallimenti, spunti deliranti, vuoti esistenziali.

Isolati tra loro, ma accomunati da un funesto destino in agguato, gli attori recitano in presa diretta le proprie miserie vitali, si degradano, abbrutiscono, corrono a tutto spiano verso la distruzione delle loro patetiche o bizzarre esistenze. Dopotutto sarà l’ultimo Capodanno di una rappresentazione collettiva farsesca e sguaiata, di vite inutili e sgradevoli, un caleidoscopio in cui concorrono ladruncoli tossicomani, studenti sbalestrati, sradicati sociali, nobili osceni, professionisti pervertiti, vecchi rimbambiti, bambini perduti, cultori pazzoidi della “new age”, donne che impazziscono per il tradimento, uomini erotomani e fedifraghi.

La follia di gruppo è incarnata da un gruppo di “ultras” di una squadra di calcio di provincia, anticipatrice dei rivoltanti protagonisti del secondo racconto dell’antologia, il terribile Rispetto – narrato in prima persona collettiva – in cui un terzetto di balordi, criminali fino al disgusto, stuprano, ammazzano a man salva, in un crescendo di effetti “splatter” e atroci nefandezze («siamo una fottuta muta di bastardi in movimento. Siamo come bufali. Solo più grossi. O come iene. Solo più famelici»).

La catastrofe, causata da un gesto ridicolo e allucinato (Ossadipesce nella sua paranoia, credendo di essere incalzato dalla polizia si libera della droga, gettando nella caldaia centralizzata lo zainetto che contiene anche candelotti di dinamite), in fondo rappresenta l’unico modo per ricomporre una tale moltitudine di schegge impazzite per evaporarle insieme, un modo di liberare la terra da parassiti e malattie, ricalcando nuovamente il vaticinio di Italo Svevo.

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2.4 Immaginare il possibile: il genere fantascientifico


Gli scenari catastrofici sono di casa nella fantascienza e in questa occasione non avrebbe senso tentarne una benché sommaria ricognizione. È preferibile soffermarsi, di nuovo, su certe rappresentazioni tipiche della condizione umana, quando questa si ritrova ad essere funestata da mutamenti radicali delle abituali condizioni di vita. Del resto, per statuto interno al genere, le narrazioni fantascientifiche hanno l’esigenza di rompere il quadro della normalità, inserire tempi e spazi alternativi al reale. Devono sorprendere, prima ancora che raccontare, rappresentare ipotesi del possibile e aprire nuove strade da percorrere, lungo le quali intravedere paesaggi del futuro. A dire il vero il termine “fantascienza ” risulta nei fatti ambiguo e riduttivo: nato nell’epoca in cui la relazione tra uomini e macchine cominciava a separare l’uomo dalla stretta referenzialità del proprio corpo (o di quello degli animali – concettualmente simili a lui), inserendo nel mondo delle possibilità ciò che prima non era immaginabile come esperienza concreta (un esempio per tutti: i mezzi di trasporto meccanici), speculando sui territori fertili dell’invenzione scientifica e sui nuovi paradigmi destinati ad ampliare il mondo del reale (nuovi spazi, perfino un nuovo tempo), l’espressione ha coinciso a lungo con la nuova frontiera dell’infinito cosmico, mettendo in scena, ad abundantiam, navi spaziali, stelle, pianeti remoti, paradossi temporali e naturalmente incontri più o meno conflittuali con creature di altri mondi. Da tempo tale cliché non è più in grado di raffigurare un genere letterario che si è espanso e dilatato e neppure di indicarne i confini entro cui sia possibile iscrivere le sue strutture diegetiche. Di conseguenza anche il suo stesso atto di nascita rischia di risultare, oggi, piuttosto arbitrario. Certo: Jules Verne e H.G. Wells sono universalmente riconosciuti tra i capostipiti di tale letteratura, ma essa ha raggiunto ormai una tale ampiezza rappresentativa e tematica da farla fuoriuscire dalla definizione di genere, portandola a confluire o quantomeno a sovrapporsi, di fatto, alla letteratura mainstream. Come si può considerare un romanzo quale La strada (The Road) di Cormac McCarthy? Un uomo e un bambino percorrono verso sud una strada americana, spingendo un carrello vuoto che racchiude le loro povere cose. Il mondo è stato distrutto, una decina d’anni prima da un’apocalisse nucleare che l’ha reso freddo e buio. Uno scenario apparentemente canonico della “fantascienza” eppure narrato con intenti lontanissimi da quelli di un Robert Heinlein . A voler insistere con le camicie di forza del genere si dovrebbe concludere che La storia vera di Luciano, l’Orlando Furioso di Ariosto e perfino l’Odissea siano da ricomprendere nell’etichetta “fantascienza”.

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2.5 James G. Ballard e la “tetralogia degli elementi”


Il rapporto tra cinema e letteratura di fantascienza è sempre stato molto stretto. Già Méliès giocava con Verne nel suo cinema-teatro. Da allora l’intreccio è rimasto sempre costante, giungendo spesso, in tempi più recenti, a scambi reciproci. Si è già sottolineato l’apporto di un regista cinematografico come Quentin Tarantino al genere “pulp” e al fenomeno italiano della “gioventù cannibale”. Lo stesso romanzo di McCarthy per molti aspetti sembra debitore del film di Robert Altman, Quintet (1978) dove, al posto di padre e figlio, troviamo un cacciatore insieme alla compagna incinta. Il mondo si è raggelato, le specie viventi sono pressoché scomparse e i superstiti, sterili e regrediti a grottesche maschere pseudo-rinascimentali, attendono l’estinzione della specie praticando il “Quintet”, un gioco che ha come posta la vita e in cui il vincente ha il diritto di eliminare gli sconfitti.

Vi sono invece scrittori come James G. Ballard che per primi hanno tentato di contemplare la catastrofe e la fine del mondo quasi come un oggetto estetico, svincolando il tema dalle più immediate responsabilità umane e trasformandolo in una potente metafora dell’impossibilità umana di adattarsi a un contesto profondamente mutato. La “tetralogia degli elementi” è un percorso ideale che l’autore realizza nell’arco di sei anni. Il primo romanzo (opera prima di Ballard e poi rinnegato dall’autore che aspirava ad una più precisa collocazione nella letteratura mainstream) è stato Il vento dal Nulla (The Wind from Nowhere), pubblicato nel 1961. Gli altri tre sono Il mondo sommerso (The Drowned World, 1962), Terra bruciata (The Burning World, 1964) e Foresta di cristallo (The Crystal World, 1966). Il ciclo si basa sui quattro elementi aristotelici aria, acqua, terra e fuoco, più il quinto elemento, il tempo, che domina la scena in Foresta di cristallo). Successivamente, nel 1975, l’autore è tornato ad esprimersi su tonalità apocalittiche in Condominium (High Rise), una vicenda angosciante di sfaldamento dall’interno di un’umanità rappresentata in un mastodontico complesso abitativo alla periferia di Londra, una storia crudele sulla degenerazione dei rapporti sociali e sulla rapidità con cui tale degradazione si diffonde in situazioni di crisi, quasi un modello del “Comprensorio residenziale delle Isole” che sarà narrato poi, come si è visto, da Niccolò Ammaniti.

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2.6 «Benvenuti nel deserto del reale»: da Matrix all’11 settembre

 
L’opera prima del regista Jim Jarmusch (Permanent Vacation) già nel 1980 sembrava anticipare le scene dell’11 settembre 2001, con l’attacco terroristico alle torri del wtc. Il giovane Aloysious si aggira smarrito in una New York semideserta e degradata dopo una guerra non precisata. Quando chiede ai sopravvissuti chi sia stato l’aggressore ottiene soltanto risposte vaghe e congetturali: nessuno in realtà sa veramente come siano andate le cose. Molto è stato scritto intorno all’evento e molti scrittori sono stati chiamati in qualche modo a testimoniare, nel tentativo di ricomporre una realtà finita in frantumi ed è significativo che gran parte del dibattito si sia svolto proprio attorno all’antinomia realtà/finzione.

Come il pensatore sloveno Slavoj Žižek ha ipotizzato, nel suo libro Benvenuti nel deserto del reale, il cortocircuito nasce in realtà da un processo di interiorizzazione della profezia catastrofica, elaborata già da tempo in forma di finzione da cinema e televisione. Il titolo riprende l’ironica battuta che Morpheus rivolge a Neo, nel film Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski, non appena quest’ultimo ha la possibilità di vedere le rovine della vera Chicago, dopo essere stato scollegato dalla rappresentazione virtuale in cui credeva di vivere, sogno indotto dal portentoso software di “Matrix”.

Quando sentiamo che l’attacco alle torri è stato uno shock del tutto inaspettato e che si è realizzato l’impossibile inimmaginabile, dovremmo tenere a mente l’altra catastrofe definitoria dell’inizio del xx secolo, quella del Titanic. Anch’essa fu certo uno shock, che però aveva già trovato un suo spazio nelle fantasie ideologiche, dato che il Titanic era il simbolo del potere della civilizzazione industriale del xix secolo. Ma non potremmo dire lo stesso per l’assalto di New York? Non solo i mezzi di comunicazione ci avevano assillato da tempo sulla minaccia terroristica, ma questa minaccia era anche stata caricata di investimento libidinale […] Su questo si basa la giustificazione della stracitata associazione tra l’attacco alle torri e i film catastrofici di Hollywood: l’impensabile che è accaduto era già oggetto di fantasia, così in un certo senso l’America ha ottenuto proprio quello su cui aveva elaborato le sue fantasie, e questa è stata la sorpresa maggiore.

Il profondo legame tra Hollywood e la “guerra al terrorismo”, continua Žižek, si è poi palesato quando il Pentagono ha chiesto a un gruppo di sceneggiatori e registi cinematografici, specialisti in film catastrofici, di collaborare «con l’intento di immaginare possibili scenari di attacchi terroristici e i modi con cui controbatterli». Un risultato di tale operazione sono le stagioni, successive alla prima (che era già andata in onda nel 2001) della serie televisiva 24 . Gli episodi illustrano una varietà impressionante di attacchi terroristici sul suolo americano, ipotizzando gli scenari più diversi, ma tutti potenzialmente catastrofici all’ennesima potenza. Tra le varie operazioni di “intelligence” messe in atto dal centro antiterrorismo governativo, vengono giustificate azioni estreme come la tortura indiscriminata (non soltanto degli “anelli di collegamento”) e l’uccisione di innocenti, motivate dalla necessità di reagire a minacce altrettanto estreme e in nome della salvezza di “milioni di persone”.

 

 2.7 La «terribile bellezza»


Lo spaesamento generato dalle reiterate immagini televisive, che hanno “coperto” l’avvenimento dell’attacco alle torri, è comunque ben visibile nelle testimonianze degli scrittori che hanno cercato di riflettere a caldo sulla catastrofe. Nell’antologia curata da Daniela Daniele, Undici settembre. Contro-narrazioni americane, vengono raccolte diverse annotazioni di scrittori americani: Don DeLillo, parlando di «rovine del futuro» non può fare a meno di osservare che l’evento «è stato abbagliante e totalizzante, e alcuni di noi hanno detto che era irreale». David Foster Wallace rimane colpito dalla «sinistra bellezza» del replay in cui il filmato televisivo mostra il secondo aereo che colpisce la torre, «con il blu, l’argento, il nero e quello spettacolare arancione» che feriva gli occhi e non ha potuto impedirsi di pensare, mentre la Torre Sud «crollava perfettamente su se stessa[…], che sembrava un’elegante signora» colta da improvviso svenimento. Un altro telespettatore, con lui presente, osserva che sembrava piuttosto «la ripresa di un decollo della Nasa fatta scorrere all’indietro». Amitav Ghosh riferisce invece le parole di una sopravvissuta: «“sembrava l’inizio di un inverno nucleare […] Tutt’a un tratto è calata su di noi una quiete assoluta e ci siamo ritrovati in mezzo a una nebbia chiarissima, accecante, come una tempesta di neve in una giornata di sole”».

Un ulteriore testimonianza di “cedimento estetico” allo spettacolo del terrore sfugge anche a Jonathan Franzen , «davanti alla terribile bellezza del crollo delle torri».

Chiunque, a meno che non si trattasse di una gran brava persona, ha probabilmente sperimentato come me lo scontro di diversi mondi incompatibili dentro la propria testa. Oltre all’orrore e alla tristezza per ciò che vedeva, avrà pure provato un infantile disappunto per lo scombussolamento della propria giornata, o una preoccupazione egoistica per le ripercussioni sulle proprie finanze, o ammirazione per un attacco così brillantemente concepito e così impeccabilmente eseguito, oppure, nella peggiore delle ipotesi, un senso di sbigottito apprezzamento per lo spettacolo visivo che quell’attacco aveva prodotto.

Mary Caponegro vede le torri «gloriosamente esplodere come un castello di sabbia che cede all’onda inesorabile» e Paul Auster ne trae un’indicazione di trasformazione epocale: «tutti sapevamo che poteva succedere[…] E così finalmente il ventunesimo secolo è arrivato».

Parole che testimoniano un sentimento complesso della percezione della catastrofe, nelle quali lo shock dell’evento si mescola indissolubilmente con le categorie del mondo estetico e della rappresentazione spettacolare, a dimostrazione che un trauma storico, come osserva Daniela Daniele, «produce in chi ne è colpito una ferita che segna anche una crisi di rappresentazione».

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2.8 «Il Ground Zero del godimento»


Le reazioni emotive descritte da Franzen vengono confermate anche da alcuni scrittori italiani i cui scritti si trovano ad attraversare di sfuggita la data dell’11 settembre, in quanto presente nell’orizzonte diegetico dei loro romanzi. Gianluca Morozzi in Luglio, agosto, settembre nero coglie il suo personaggio principale in una riflessione a caldo su quanto appena successo davanti agli schermi tv, a ridosso della paura di essere diventati tutti, anche noi, «bersagli». Un’onda di terrore che dura però solo lo spazio di in pomeriggio.

E dopo la marea si è ritirata[…], la soglia d’attenzione è sempre più bassa, al tramonto nessuno aveva ancora lanciato aerei sulle nostre teste, e allora chi aveva un appuntamento è andato all’appuntamento, chi voleva farsi una birra si è fatto una birra, e chi voleva vedere Enrico Papi ha anche un po’ sbuffato per quelle edizioni straordinarie che non finivano più. E se domani il mondo ci sarà ancora[…] e la Cnn continuerà ad oscurare Enrico Papi, un sacco di gente dirà:”eh, però basta con ‘ste torri gemelle del cazzo”.

Un punto di vista del tutto analogo a quello che Tiziano Scarpa insinua nella mente del protagonista di Kamikaze d’Occidente:

Accendo la televisione. Missili a Kabul. È iniziata la terza guerra mondiale? Dunque vediamo… Breve sondaggio interiore: domani sera ho un’altra lettura di poesia, dopodomani mattina lavoro. Per di più, nelle prossime settimane devo finire un libro per il mercato cinese. No, non ho nessuna voglia di avere una guerra fra le palle. Ho molto ma molto di meglio da fare. Ergo non scoppierà nessuna guerra. È scientifico.

La percezione è dunque quella di una frattura temporanea del reale, che tuttavia torna a richiudersi, come l’acqua di uno stagno sul sasso che ne ha turbato la superficie. Si tratta di scoprire dove è finito il sasso: Žižek ritiene che l’unico modo di attingere il reale, sia quello di riconoscere e smascherare la componente di finzione che le rappresentazioni della presunta realtà inoculano nel nostro immaginario. Bisognerebbe, in altre parole, sottoporre a dialettica costante  la triade Reale/Simbolico/Immaginario, mettendone in luce i prestiti reciproci e identificandone gli scambi.

In un’altra antologia, questa volta di autori italiani, Scrivere sul fronte occidentale, curata da Antonio Moresco e Dario Voltolini, e anch’essa frutto di riflessioni a caldo dopo l’11 settembre, Marco Senaldi osserva che se il “principio di piacere” governa la dimensione estetica capace di collegare l’orizzonte simbolico e quello della realtà, allora, quando tale orizzonte si lacera, quando cioè immaginario e reale si confondono, il rapporto «da simbolico diventa diabolico». In tal modo ci si inoltra “al di là del principio di piacere” e si diventa vittime di sentimenti inconciliabili, quali orrore e seduzione, come avveniva in passato con gli “spettacoli di giustizia” d’ancien régime durante i quali il popolo che gremiva le piazze provava, davanti alle esecuzioni pubbliche, “stupore e meraviglia” mescolati con “orrore e raccapriccio”. Osserva ancora Senaldi:

È per questo che l’attentato e la sua anima mediale, cioè la diretta televisiva, hanno incarnato il sublime contemporaneo, come fonte non più di piacere (modo di fruizione proprio del Bello), o di dispiacere (derivante dal Brutto), ma di godimento come paradossale scontro di piacere-dispiacere, di eccesso e di penuria, di “nauseato stupore”.

Se oggi l’apocalisse ha perduto ormai per sempre quel significato parallelo delle origini e che consisteva nella “rivelazione” di un piano simbolico sottostante alla catastrofe, se si è ridotta a semplice sinonimo di muto stordimento privo di senso e di futuro, ci si rende tuttavia conto che la visione di rovina non è a sua volta innocente, non è la semplice traduzione in atto di un processo che investe direttamente la realtà-reale, ma è a sua volta una rappresentazione simbolica, una spia del rapporto mutevole tra uomo e natura.

Qualcosa dopo l’11 settembre sembra essersi rimesso in moto nella letteratura, almeno nelle intenzioni, avvertendo la necessità di interpretare una rinnovata riflessione, capace di andare oltre l’orizzonte del «deserto del reale». Antonio Moresco ritiene, ad esempio, che sarà sempre più necessario studiare attentamente le dinamiche mentali e i mascheramenti simbolici che spingono noi, «piccole scimmie nude, infe­lici, cattivissime», a tentare di «dominare distruttivamente il mondo» in cui abitiamo, a non accontentarci di risposte fatte di presuntuosa definitività.

Una svolta radicale che impone di riprendere il contatto con «l’infinitamente grande », proprio a partire dal piano della rappresentazione: e questa è forse l’ultima lezione che ci hanno insegnato le immaginazioni e le realtà catastrofiche filtrate attraverso i media.

L’11 settembre, nei cinema di New York, era del resto in programmazione Apocalypse Now Redux di Francis Ford Coppola .