La forma e la parola.
Una nota sul metodo di ricerca di Piero Camporesi - con bibliografia
di
Alberto Natale
Cfr. "Griseldaonline", Inferni
numero I, marzo - ottobre 2002
http://www.griseldaonline.it/percorsi/archivio/Natale_nota.htm
Ricordare la figura e l'opera di Piero Camporesi, il grande
italianista scomparso nel 1997, è impresa impossibile da
condurre degnamente, tanto era poliedrico il suo campo di ricerca e
tanto ricca, addirittura lussureggiante, la sua multiforme erudizione.
Nel tentativo di descrivere per sommi capi la sua vasta produzione
scientifica risulta al tempo stesso difficile evitare l'intrusione del
superlativo e dell'iperbole, che tuttavia, lungi dallo scaturire da
intenti encomiastici, appare piuttosto un'inevitabile emanazione della
statura del personaggio.
Nonostante ciò il suo nome era molto più noto fuori
dell'Italia e i suoi saggi, tradotti ovunque fino all'estremo Oriente e
al Giappone, hanno destato profonda impressione e suscitato vasta eco.
Benché stimato tra gli addetti ai lavori per le sue
indiscutibili valenze di uomo enciclopedico, sul suo nome aleggiava
sempre un fumus
di bizzarria che faceva storcere il naso all'Accademia nostrana. Non
era molto amato, come accade spesso a chi conduce la propria ricerca
sul versante dell'originalità; e il suo metodo di lavoro -
consistente nell'inesausto studio sul campo, frugando per ogni
biblioteca alla ricerca di fonti di prima mano - poteva intimidire.
Se si dovesse definire la cifra distintiva dei percorsi di
ricerca di Camporesi si sarebbe tentati di fissarla in una semplice
congiunzione, tra, sottolineando la libertà di movimento
che il termine consente nella lingua italiana, senza vincoli tra numero
e posizione degli elementi congiunti (si pensi alle differenze tra between e among per l'Inglese o entre e parmi
per il Francese). Si tratta quindi di una trasversalità che non
necessariamente rappresenta un punto mediano tra diverse sfere del
sapere, un percorso sul filo del rasoio che richiede maestria e
umiltà, e che non può assolutamente essere intrapresa
senza l'ausilio di un eclettismo sostenuto da conoscenze attinte da
fonti certe e solide. La formazione stessa di Camporesi è
trasversale, e inizia con gli studi di medicina prima di approdare alla
filologia letteraria: la sua esperienza successiva risentirà
costantemente di questa duplice predilezione, consentendo di inserire
la sua opera tra i maggiori contributi di questo secolo, volti a
sgretolare il muro medievale che ancora separa trivio e quadrivio. Come dichiarava lui stesso, il suo metodo "non discende certo
dall'idealismo crociano, ma dalla grande tradizione positivista, spesso
trascurata, che ha avuto anche l'Italia: per fare dei nomi, D'Ancona,
Novati, Ludovico Antonio Muratori. Non l'Italia delle parole insomma,
ma quella dei fatti e dei documenti" (Pronto in tavola l'alfabeto della storia, intervista di Cesare Medail a Piero Camporesi, in "Corriere della Sera, 24 gennaio 1981).
Percorsi di ricerca che si muovono tra scienze del corpo e letteratura
dunque, ma anche tra storia e cronaca, tra società e individuo,
tra cultura materiale, religione, antropologia e mitografia, tra corpo
e anima, tra arte e mestieri, tra cultura popolare e cultura
d'élite. Anche se il tempo della sua indagine è
focalizzato principalmente sull'arco storico tra medioevo ed età
moderna, la prospettiva di lungo periodo gli permette di produrre una
visione complessiva e globale della sfera intima dell'uomo europeo,
quando non universale. Nella sua capacità di restituirci un
trattato iconologico della vecchia società, attraverso le
invarianze dei grandi temi della natura umana (l'alimentazione, la
percezione del corpo, il laboratorio dei sensi), Camporesi riannoda i
fili che permettono di scorgere una trama unitaria e di riconoscere la
funzione maieutica svolta dal passato nei confronti del presente,
secondo un processo non tanto di ricostruzione, quanto di svelamento.
Il suo interesse è sempre concentrato sulla materia, sia
rappresentata nella vita del corpo - nella girandola della sua
percezione, del suo governo e delle sue trasformazioni - sia delineata
come sfondo nel quale le attività umane si svolgono, nel mondo
della vita quotidiana di borgo, città e campagna, nella
dialettica dei mestieri delle acque e della terra, nella geografia
mentale di una sensibilità umana plasmata da una realtà
dura e scabra, generatrice di ansie escatologiche, ombre, insicurezze,
paure.
Nell'attraversare questo territorio smisurato e viscoso Camporesi non
rifiuta nessuno strumento di indagine, afferente dai più diversi
ambiti scientifici. Tuttavia rimane sempre viva in lui l'esigenza di
far parlare i testimoni, le sue fonti, i colti e gli incolti, gli
scienziati e i 'filosofi', i cronisti, i diaristi, gli artigiani della
penna e gli accademici togati.
Memorabili sono certe pagine su grandi figure del passato, ritratti
sulla scena del proprio ambiente contemporaneo: l'anziano Petrarca,
ospite di un banchetto padano, ossessionato dai cibi della giovinezza;
Galileo invaghito della misteriosa idraulica vegetale della vite -
distillatrice di nettare solare - che si rivela scienziato più
propenso ad arricchire la cantina che la biblioteca; il medico
scomunicato Fioravanti, ciarlatano per la scienza ufficiale, ma grande
bonificatore e antesignano della moderna medicina. Accanto a queste figure incontriamo però anche lo stuolo
sterminato degli umili: "erbaroli", cerusici, levatrici, mammane,
"mercuriali", "mulierculae", villani, norcini, pastori, capimastri,
barcaioli, fonditori, mercatanti, che producevano sapere, spesso
più di quanto non facessero i sapienti; cantastorie,
cantimbanchi, "ciurmadori", accattoni, eremiti, preti di campagna,
pellegrini, vagabondi, banditi, viaggiatori, osti, "guidoni", che
producevano una parte considerevole di quella 'cultura', fissavano
stili e maniere della vita di piazza e di festa, riversavano il
sentimento religioso fuori dei sagrati.
Una mescolanza di generi e di voci, "la piazza universale di tutte le
professioni del mondo", l'immenso calderone della vecchia
società dalla quale, dopotutto, ci sentiamo oggi indebitamente
lontani, ma il cui svelamento ci permette di guardare con più
acutezza e onestà intellettuale al nostro presente, di
accorgerci delle continuità e di comprendere le trasformazioni.
L'originalità di Camporesi non si limita alla pur
stupefacente capacità di raccogliere materiale documentale,
restituendocelo dall'oblio dei secoli: tale sforzo sarebbe vano se
fosse disgiunto da un metodo stilistico idoneo a renderlo visibile e
plausibile. Ed è qui, a mio giudizio, che il grande ricercatore
dà il suo maggiore contributo. Camporesi riteneva impossibile
che la ricerca fosse divulgabile, addirittura concepibile, senza
l'influsso di una forte tensione creativa, senza un approccio alla
materia non soltanto passionale, ma anche inventivo.
Per lui la ricerca scientifica doveva inglobare creatività e
fantasia, nel massimo rigore metodologico e pur tuttavia sotto la guida
di "suggestioni" ed "emozioni". E da ciò si vede quanto grande
fosse la distanza che lo separava da quell'arida scrittura accademica,
spesso asettica o addirittura repulsiva, che tutti conosciamo, alla cui
mancanza di brillantezza e passione sovente ci si inchina per reclamare
una pretesa scientificità.
La sua prosa, nitida e scintillante, affabulante e immaginifica - ma
dalla cui esattezza e precisione traspare sempre lo sguardo severo del
professore - è quanto di più alto sia stato raggiunto nel
campo della divulgazione. Lo scienziato si fa scrittore, creatore e non soltanto strumento
di trasmissione di un sapere altrimenti ristretto all'ambito della
bibliografia erudita o, peggio, ad un circuito autoreferenziale. La sua
scrittura è densa, magmatica, opulenta, pur senza indulgere
all'autocompiacimento.
L'equilibrio, quasi impossibile, si realizza attraverso una scelta
lessicale sorvegliatissima, che rifugge dalla piattezza come dalla
concitazione, dall'uso sapiente della citazione, sempre perfettamente
inserita nell'orizzonte narrativo, in un impasto sonoro prima ancora
che discorsivo. La terminologia del passato, delle fonti, luccica
nella pagina - come direbbe Roland Barthes - grazie alla scelta
accurata dei due corni della parola: significato e significante.
A beneficio di coloro che non abbiano mai incontrato i testi di
Camporesi tra le loro letture, vorrei concludere questo mio modesto
ricordo dell'autore e del ricercatore con alcuni passi tratti da La carne impassibile
in cui vengono descritte le angosce e i tormenti interiori che
agitavano i sonni degli uomini della vecchia società e i metodi
con cui venivano leniti, ricorrendo ad una farmacopea ormai a noi
estranea, ma forse non così inconcepibile per la logica
terapeutica che ancor oggi sembra permanere.
I "molti spaventi notturni" patiti da
Torquato Tasso non rappresentavano un caso personale o sporadico: gli
"errori", gli "inganni", le "ombre" delle sue notti estensi, il suo
"torbido ingegno" "ne'l sonno e 'n alto oblio sommerso", erano comuni
al regime notturno di molte persone, di generazioni sottoposte agli
assalti di Ephialte ("ab insiliendo"), dell'incubo ("ab incumbendo")
che rendeva "difficilis motus, torpidus in somno sensus",
"suffucationis imaginatio oppressio". "Aggressio", "invasio nocturna",
"nocturna suffocatio", "terror panicus", "ludibria faunorum et
satyrorum": tali gli oltraggi dello "strangulator", dello strangolatore
della notte che si abbandonava col suo lordo peso sul corpo degli
addormentati [...].
Si fuggano [scongiuravano i medici] con ogni
potere i pensieri tutti delle cose miserabili e tutte l'altre cose che
posson perturbar l'animo e sempre di tutte le cose si speri bene,
perché star con la mente allegra in tutte l'infirmità
è bene, come il contrario è male; né è da
fermarsi lungo tempo nell'immaginazioni, perché, come si dice,
l'immaginazione fa il caso [...].
Ma contro l'insonnia provocata da "mala
complessione" doveva essere somministrato il "diaconico, o siropo di
papavero o nattatura di seme di papavero quando è ora di dormire
[...]. E conforta molto l'ungere di dentro con olio nenufarino e unga
la fronte e le tempie e le palme delle mani e le piante de piedi e i
polsi delle braccia con l'unguento populeon e si faccino purga-capo con
olio violato e con latte di donna [...]".
Sciroppi papaverini, unzioni, unguenti, bagni, inalazioni, polveri, suffumigi. Dalla cosiddetta requies magna alla potente spongia somnifera dell'Antidotarum Nicolai
(una spugna marina imbevuta di succhi di oppio, giusquiamo, cicuta,
mandragola da apporre alle narici), la battaglia contro l'insicurezza,
il dolore, l'insonnia, i cattivi sogni, lunga e tormentata, venne
combattuta, come diceva Mesue, "consolatione medicinarum simplicium".
In questo mondo turbato e difficile, fumigante e oliato, suffumigi e
unguenti accompagnavano molti momenti della vita, specialmente quelli
più delicati e segreti. [pp. 239-241]
Da Le officine dei sensi proviene invece questa pagina
che getta luce sulla mentalità alimentare secentesca,
nonché sull'atteggiamento della medicina del tempo, pienamente
integrato nella nozione di malattia intesa come generazione ex putri.
Per parecchi secoli e da parte di molti si ritenne che la
malignità intrinseca del formaggio, la sua "nequizia", venisse
preavvertita e segnalata dal suo odore, per non pochi nauseabondo e
stomachevole, indice sicuro di materia "morticina" (Campanella), di
residuo in decomposizione, materia sfatta e deleteria, sostanza
putredinosa nociva alla salute e terribile corruttore degli umori. Fin
oltre la metà del XVII secolo era praticamente impossibile
distinguere fra putrefazione e fermentazione. Fu necessario attendere
la Physica subterranea (1669) di Johan Joackim Becker (Beccherius) perché s'incominciasse a riflettere sopra la diversità dei due processi.
Qualche decennio prima della Physica
del Becker, "opus sine pari", era uscito a Francoforte il libretto di
un medico tedesco, Johan Petrus Lotichius, utilissimo a far comprendere
che l'avversione nei confronti del formaggio non era motivata da
personali preferenze di gusto, ma da tutta una teoria medica che -
specialmente fra i ceti alfabetizzati - condizionava scelte, inquinava
immagini, determinava preferenze e repulsioni, influenzava la
mentalità alimentare depositandosi perfino nell'inconscio del
consumatore. Il libello portava un titolo rivelatore: De casei nequitia (1643). Res foetida et foeda,
scrematura della parte escrementizia del latte, delle scorie nocive,
coagulo della parte infima, melmosa e terrestre del bianco liquido,
copula (Lotichio adopera spesso il verbo "coire" per indicare la
coagulazione) delle peggiori sostanze, al contrario del burro che ne
è la parte migliore, eletta, pura, vera e propria delizia
divina, Iovis medulla, midolla di Giove. "Res foeda,
graveolens, immunda, putidaque", il formaggio niente altro è che
"massa informis, foetida e lactis scoriis partibusque terrestribus ac
recrementitiis, alimenti causa, coagulata sive combinata"; cibo da
lasciare agli uomini di vanga e ai poveracci ("ad fossores et
proletarios"), "res agrestis atque immunda", indegno di persone per
bene, di cittadini onorati: pasto, in una parola, di straccioni e
villani, soliti a mangiare "brutti cibi" (Campanella). [...]
I mangiatori di formaggio appaiono a Pietro Lotichio simili a
degenerati amatori e sordidi degustatori delle sostanze putrefatte
("putredinem in deliciis habent"). La logica medica prescientifica gli
dava non solo ragione ma gli offriva anche i facili strumenti per
dimostrare l'iniquità del formaggio perché dalla
corruzione di fetidi e putridi alimenti gli umori non potevano essere
che sconcertati e corrotti. Cibandosene si metteva in moto un
meccanismo incontrollabile di moltiplicazione di quei vermi che, anche
normalmente, "in viscerium latibulis pullulant".
Questa era l'orribile verità: il formaggio generava negli oscuri
meandri dei visceri, nelle latebre del budellame umano, incrementandone
la preesistente putredine, piccoli, schifosi mostri. [...]
Se dalla putredine si formavano spontaneamente, casualmente (la nascita ex putri)
lumache e chiocciole; se dal letame bovino scaturivano scarafaggi,
bruchi, vespe, fuchi; se dalla rugiada uscivano farfalle, formiche,
locuste, cicale, come poteva non accadere - si chiedeva il medico
tedesco - che negli intestini dell'uomo, viscidi di pituita, di residui
di decomposizione, non si verificasse lo stesso processo che dava vita
incontrollata e sorprendente (al di fuori della copula e
dell'inseminazione dell'uovo) a miriadi di orridi animalcula?
Perché non ritenere che anche nel basso ventre, letamaio
dell'uomo, non fermentasse la stessa immondizia, la stessa brulicante
equivoca fauna dei "piccoli animali", degli "animaluzzi", piaga crudele
dell'uomo? "Cui absurdum videri potest, in corporibus hominum e simili
causa, tale quid generari?" Perché non poteva succedere la
stessa cosa se da "pituitosa, crassa, crudaque materia vermes atque
lumbrici omnes trahunt originem"? [pp. 53-55]
Con questo piccolo florilegio spero di aver reso l'idea di
quella che è la magnifica prosa di un artista della scienza come
Camporesi, nonché aver reso omaggio come conveniva (sia pure da
parte di chi come me è stato un umile allievo) ad una
personalità della cultura italiana, la cui mancanza sarà
particolarmente sentita e il cui lavoro resterà per sempre
esempio e stimolo della passione di ricerca.
Opere principali
(la scheda è a cura di Elide Casali, in "Caffè Michelangiolo", III, 2, maggio-agosto 1998)
Edizioni curate:
- Ludovico di Breme, Il romitorio di sant'Ida, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1961.
- Ludovico di Breme, Lettere, Einaudi, Torino, 1966.
- Vittorio Alfieri, Estratti d'Ossian e da Stazio per la Tragica, Asti, Casa d'Alfieri, 1969.
- Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, Torino, Einaudi, 1970, poi 1974, 1985 e 1991.
- Il libro dei vagabondi, Torino, Einaudi, 1973.
- G.C. Croce, Bertoldo e Bertoldino, Torino, Einaudi, 1978, poi Milano, Garzanti, 1993.
Studi:
- Lo stereotipo del Romagnolo, in "Studi romagnoli", XXV (1974), pp. 393-411.
- La maschera di Bertoldo. G.C. Croce e la letteratura carnevalesca, Torino, Einaudi, 1976 poi Milano, Garzanti, 1993.
- I saggi pubblicati nei volumi Cultura popolare nell'Emilia Romagna, Milano, Silvana ed., 1977-1982, furono successivamente ristampati e ampliati in Alimentazione folklore e società, Parma, Pratiche Editrice, 1980 e 1983, e infine in La terra e la luna, Milano, Il Saggiatore-Mondadori, 1989, Milano, Garzanti, 1995 (trad. francese 1993).
- Il paese della fame, Bologna, il Mulino, 1978, 1985, poi Milano, Garzanti, 2000 (trad. inglese 1996).
- Il pane selvaggio, Bologna, Il Mulino, 1980 e 1983 (trad. francese 1981, spagnola 1986, inglese 1989, tedesca 1990, portoghese 1990)
- Cultura popolare e cultura d'élite fra medioevo ed età moderna, in Storia d'Italia, Annali IV: Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981, pp. 79-157 poi ristampato in Rustici e buffoni, Torino, Einaudi, 1991 (trad. tedesca 1994).
- "Presentazione" a G. Cocchiara, Il mondo alla rovescia, Boringhieri, Torino, 1981.
- La carne impassibile, Milano, Il Saggiatore, 1983 (trad. francese 1986, inglese 1988, olandese 1994).
- Odori e sapori, introduzione a Alain Corbin, Storia sociale degli odori. XVIII e XIX secolo, Milano, Mondadori, 1983.
- Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue,
Milano, Edizioni di Comunità, 1984, poi Milano, Mondadori, 1988,
Milano, Garzanti 1997, con inedita introduzione (trad. francese 1990,
giapponese 1991).
- Le officine dei sensi, Milano, Garzanti, 1985 (trad. francese 1989, inglese 1994).
- La casa dell'eternità, Milano, Garzanti, 1987 (trad. francese 1989, inglese 1990, americana 1994).
- I balsami di Venere, Milano, Garzanti, 1989 (trad. francese 1990, tedesca 1991).
- Il brodo indiano, Milano, Garzanti, 1990 (trad. francese 1992, inglese 1994).
- La miniera del mondo. Artieri inventori impostori, Milano, Il Saggiatore-Mondadori, 1990 (trad. francese 1992).
- Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, Milano, Garzanti, 1992 (trad. francese 1992).
- La porta chiusa. Bologna, gli Ebrei, il Ghetto, in Il Ghetto, Grafis edizioni, Bologna, 1993.
- Le vie del latte dalla Padania alla steppa, Milano, Garzanti, 1993.
- Il palazzo e il cantimbanco, Milano, Garzanti, 1994.
- Il governo del corpo, Milano, Garzanti, 1995.
- Camminare il mondo. Vita e avventure di Leonardo Fioravanti medico del Cinquecento, Milano, Garzanti, 1997.
Contributi sull'opera di Piero Camporesi
- La voce Piero Camporesi di Wikipedia curata da Alberto Natale.
- La lezione di Piero Camporesi, Convegno dell'Accademia degli
Incamminati, Modigliana, 14 giugno 1998, con relazioni di Marco
Belpoliti, Marino Biondi, Oliviero Ponte di Pino, Massimo Montanari,
Elide Casali, Remo Melloni, Natale Graziani, Elide Casali, Giorgio
Luti, Giuliano Scabia, Matteo Poggi, raccolte in "Caffè Michelangiolo",
III, 2, maggio agosto 1998.
- L'opera di Piero Camporesi, Convegno di studi Bologna, giovedì 4 - venerdì 5 marzo 1999, atti in corso di pubblicazione.
- Elide Casali, Il cammino di Piero Camporesi storico e scrittore, in "Portici", II, 1, dicembre 1997, anche on line, http://www.provincia.bologna.it/portici/pdf/porticia1n2.pdf
- Elide Casali, Piero Camporesi tra presente e passato, in Bollettino '900: News 3, 2 novembre1997, http://www.siol.it/ospiti/especiale/lettere/li153.htm
- Pronto in tavola l'alfabeto della storia, intervista di Cesare Medail a Piero Camporesi, in "Corriere della Sera", 24 gennaio 1981).
- Una recensione de Il brodo indiano di Roger Haden in
http://english.uq.edu.au/mc/reviews/features/food/exotic.html
- Il contributo di Ponte di Pino è consultabile anche presso il sito
http://www.trax.it/olivieropdp/Camporesi.htm
- Una recensione ancora di Il Brodo indiano a cura di Grazia Casagrande è presente presso
http://www.alice.it/cafeletterario/073/cafelib.htm
- Una nota sull'opera di Camporesi a cura di Alberto Natale è consultabile in
http://www.psychomedia.it/pm/culture/liter/campores.htm
- Una recensione de Il pane selvaggio è disponibile in
http://www.cdt.ch/magazinearch/130699/magazine/mendi.htm
- Su Il paese della fame e Il carnevale all'Inferno si può consultare una nota in http://dante.ilt.columbia.edu/books/undiv_com/notes/udc_notes_four.html
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