Il formaggio: nequizia e virtù


di Alberto Natale

Cfr. Voce Formaggi, in Banchetti letterari, a cura di Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi, Roma, Carocci, 2011


Generare il mondo

In Berlinzone, l’opulenta terra dei Baschi, in cui ci si poteva permettere di legare «le vigne con le salsicce», in una contrada che si chiamava Bengodi, «eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan, che fare maccheroni, e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava, più se n’aveva: e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro un gocciol d’acqua» (Boccaccio, Decameron, VIII, 3).

Le contrade di Cuccagna evocate da Bruno e Buffalmacco, «uomini sollazzevoli molto» quanto «avveduti e sagaci», per irretire il “semplice” Calandrino, erano da tempo immemorabile ben note al volgo, paesaggio onirico ma non meno familiare dell’universo rovesciato e rutilante dove trionfavano gli appetiti del corpo e delle viscere, ben delineati dal massimo rappresentante e reggitore del mondo «a capinculo» lo «squaquaratissimo, sloffeggiantissimo, ingordissimo, sfondatissimo diluviatore Signor Carnevale», un tempo in cui si poteva, anzi era prescritto, lasciare libera la fantasia e l’illusione di «sbevazare papare sgolazare squaquarare trachanare ingultire lecare stragualzare surbire et gualcire robbe delicate bone et sbilisighente». Nell’immaginario dei ceti popolari il Carnevale rappresentava il rovesciamento del tempo presente dominato dalla sottoalimentazione (non a caso il primo pensiero di Calandrino, attivato da un pavloviano languore, è quello di informarsi sulla sorte dei capponi, una volta terminata la loro funzione di arricchire il brodo), un tempo sovvertitore di gerarchie sociali e destini quotidiani in cui il capovolgimento generale del gramo mondo quaresimale culminava in un’orgiastica aspirazione proteica, dove i capponi rappresentavano l’oggetto proibito del desiderio, mentre il formaggio con la sua realtà tangibile e plebea sembrava destinato a tenere insieme, come un cremoso collante, la celebrazione dell’eccesso con il mondo quotidiano, moltiplicando l’ambito del possibile alimentare con la smisurata disponibilità di un ingrediente universale e magico che prendeva il posto della terra sostituendone isole e montagne.
La profusione e l’iperbole di formaggio vengono riprese da Teofilo Folengo che, nel narrare le gesta pseudo-cavalleresche di Baldo, invoca le Muse «grasse» e «panciute» Gosa, Comina, Strega, Mafelina, Togna e Pedrala, per ottenere il giusto viatico al suo racconto. Preferisce di gran lunga queste ruvide divinità di montagna dai nomi triviali, ninfe «che colano unto» e sudore piuttosto che la «minchiona» Talia, o Febo capace soltanto di «grattare il chitarrino». Le preferisce al vuoto «chiacchiericcio del Parnaso» poiché , considerando «le cavità della mia pancia» «hoc parlandi genus rusticanum rusticis convenit» (Apologetica di Merlin Cocaio). La vicenda prende il via sotto gli auspici di fitte nevicate di formaggio grattugiato, colate di burro, valanghe di maccheroni che rotolano da montagne di formaggio tanto alte da raggiungere la luna (Baldus, I).

Nel paese di Cuccagna «dove chi più dorme più guadagna» il formaggio è di norma l’elemento più rappresentato dell’iperbole alimentare: in una stampa popolare romana del XVIII secolo, conservata presso la collezione Bertarelli a Milano, la tradizionale cornucopia del latte cagliato trovava ancora una inesausta rappresentazione: al centro campeggia una «montagna grandissima di cascio grattato» sulla cui sommità una «caldara larga un miglio» bolle in continuazione, eruttando «macheroni et ravioli, quali razzolando per lo cascio cascano giù nel lago di buturo squagliato» per la delizia ed il sollazzo di chi «ne piglia e mangia suo piacere» insieme a fette di provole («provature fresche»). Altrove svetta una seconda montagna di «provature marzoline» circondata da un fiume di latte da cui affiorano «groppi» di ricotte, che del resto sembrano trovarsi in ogni dove, sparse nel paesaggio insieme alle vigne legate con salsicce e agli asini impastoiati con «salsiccioni».
Il parossismo caseario non si limita alla sfera alimentare, ma tracima dalla campagna alla città dove costituisce la parte preponderante del materiale edilizio impiegato negli edifici (nei palazzi «di cascio parmigiano son le mura et di ricotta le fanno imbiancare» mentre la «prigione per chi lavora» ha le spesse pareti di «cascio pecorino»).
L’idea che l’intero universo alimentare potesse sostanziarsi a partire da una solida base di cacio, sulla tenace crosta di un cuore di latte cagliato al punto giusto, fino a sostituire l’humus terrestre, era stata immaginata – non priva di richiami edenici – da Luciano di Samosata (121-181 ca.): nel libro ii della Storia Vera, dopo la fuga dal ventre della balena, l’autore conduce la favolosa avventura di un’esplorazione navale, nata soltanto dalla spinta «a viaggiare per curiosità di mente, per desiderio di veder cose nuove, per voglia di conoscere il fine dell’oceano, e quali uomini abitano su quegli altri lidi» fino a raggiungere un mare non più d’acqua, ma di latte, in mezzo al quale biancheggiava un’isola di formaggio, piena di viti i cui grappoli secernevano latte. «L’isola era un grandissimo formaggio, ben rassodato, come dipoi ce ne chiarimmo mangiandone, e girava intorno venticinque stadii: le viti erano cariche di grappoli, dai quali non vino, ma sprememmo latte, e bevemmo». Durante la permanenza gli uomini ebbero, con somma soddisfazione, «per pane e companatico la terra dell’isola, e per bevanda il latte dei grappoli».
Già altrove, nella Storia Vera, il formaggio era comparso in veste prodigiosa e fantastica: nel libro I il narratore aveva infatti potuto vedere gli abitanti della luna, sul cui suolo i naviganti erano giunti con la nave rapita da un fortissimo turbine, che «quando fanno qualche fatica o esercizio da tutto il corpo sudano latte, dal quale fanno formaggio con poche gocciole di mele». Episodi che si ritrovano pressoché identici nel favoloso dell’Ottocento dispensati nelle Avventure del barone di Münchhausen (la nave inghiottita da un’enorme balena, la luna raggiunta sotto la spinta di un uragano ascensionale e l’isola di formaggio circondata da un mare di latte «squisito» – compresi i grappoli da cui spremere il latte). Il mitico barone approdato sulla luna coi suoi compagni, nel cuore di terre abitate e rigogliose, aveva potuto osservare da quel singolare punto di vista «un’altra terra con città. Alberi, monti, fiumi, laghi… che doveva essere, secondo la nostra supposizione, il mondo che avevamo lasciato» (Münchhausen, p. 137). Le stesse conclusioni a cui era giunto il narratore della Storia Vera, scorgendo nel notturno cielo lunare «un’altra terra giù, che aveva città, e fiumi, e mari, e selve, e monti: e pensammo fosse questa che noi abitiamo». Impossibile non ricordare le assonanze con quegli «altri fiumi, altri laghi, altre campagne» che sono lassù pur differenti dai nostri abituali paesaggi, «altri piani, altre valli, altre montagne, / c’han le cittadi, hanno i castelli suoi» con cui Ariosto sintetizza mirabilmente un punto di vista rovesciato sull’astro lunare (Orlando furioso, XXXIV, 72).

Il formaggio è dunque un alimento terreno (anzi, terrestre) fino al punto di sostituire l’humus e la crosta del mondo calpestato dall’irrequieto andirivieni umano. Tuttavia, pur mantenendo pressoché intatto e ben radicato nei secoli l’evidente connotato mondano, è stato non di rado ritenuto capace di esprimere sottili influssi celesti e spirituali, seguendo lo schema che accosta il magico ruolo del caglio – col suo prodigioso potere di trasformare la materia lattea – al soffio divino ispiratore e animatore della generazione umana, lo spirito che dà anima al corpo. In una celebre visione della mistica Ildegarda di Bingen (1098-1179) l’alito divino è rappresentato, in una miniatura del Codice di Rupertsberg, come un rombo celeste che insuffla un caglio vivificante nel frutto del concepimento umano, inerte nel ventre della madre. Tutto intorno uomini (antenati del nascituro) che producono formaggi («caseos conficientes») con diverse qualità di latte: formaggi maturi e robusti («fortes») vengono manufatti da latte grasso e cremoso («pars spissa»), formaggi teneri («debiles casei coagulati sunt») da latte scremato («pars tenuis»), mentre dai residui di latte misto a siero («pars tabe permista») ricavano un formaggio amaro ed effimero («amari casei processerunt») in cui il diavolo versa il germe della corruzione, chiare metafore delle diverse specie dei semi umani che, tuttavia, l’afflato divino e il dono dell’anima sono in grado di trasformare in uomini in grado, nessuno escluso, di conquistare la beatitudine celeste (Hildegardis, Scivias, in Migne, Patr. Lat., 197 coll. 415 e 423).
Miti antichi hanno collegato frequentemente il formarsi del creato attraverso un processo che proviene dal latte e che passa per la caseificazione: nei Veda dell’India antica non solo l’universo, ma anche gli dei «nascono da un oceano di latte zangolato da Visnù» (Camporesi, Le vie del latte), un’immagine cosmica che sorprendentemente sembra rinascere nella cosmogonia di un mugnaio friulano del Cinquecento –  il celebre Domenico Scandella, detto Menocchio, portato alla luce da Carlo Ginzburg – all’interno di una rappresentazione sensibilmente materialistica della creazione e che scaturisce dalla convinzione che all’inizio dei tempi tutto fosse «un caos». Concezione che doveva essere indubbiamente in sintonia con una diffusa suggestione arcaica, condivisa e presente all’interno di quel mondo culturale contadino, da sempre abituato a congetturare il “celeste” sulla base di esperienze empiriche terrene, formae mentis millenarie e resistenti che la cristianizzazione delle campagne non aveva del tutto cancellato. Così il mugnaio cercò di spiegare all’inquisitore, non senza un certo puntiglio, la reale versione di quanto era andato in giro a sostenere, conversando con i suoi conoscenti:

Io ho detto che quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos… Nel principio questo mondo era niente, et… dall’acqua del mare fu batuto come una spuma, et si coagulò come un formaggio, dal quale poi nacque gran moltitudine di vermi, et questi vermi diventorno homini, delli quali il più potente e il più sapiente fu Iddio.

L’opinione di Menocchio richiamava una conoscenza pratica e concreta comune ai pastori Calmucchi dell’Altai che sembra rappresentare, aggiunge Ginzburg, «l’esistenza di una tradizione cosmologica millenaria che… congiunse il mito alla scienza», impressione che si ricava anche dall’archeologia etimologia che spiega la forma del nome ‘caseum’ come derivato di un medio neolitico ‘coagulum’ (Alinei, pp. 96-7) l’iconimo di partenza si sarebbe quindi definito in base all’esperienza della cagliatura, rispecchiando pienamente l’immaginazione cosmogonica di Menocchio, figlia di quel pensiero arcaico a cui «è ignota la separazione fra organico e inorganico» (Camporesi, Le vie del latte).
D’altra parte, rivoli sottili di latte, perfusioni mistiche e distillati capillari hanno nello stesso tempo irrorato come liquidi salvifici i palati assetati degli anacoreti che eleggevano stabile domicilio nei deserti riarsi della tebaide: il precario spirito vitale dei santi del deserto era sorretto da allattamenti generosi di animali selvatici. San Mamante – noto anche come San Mamolo – si sostentava di latte di capre selvatiche e cerve, da cui ricavava anche il formaggio. In suo nome sono stati venerati per secoli i santuari galattofori presso cui le puerpere si recavano nella speranza di attivare una montata lattea assente (latte e fonti d’acqua dolce sono sempre stati profondamente connessi e avvinti in un rapporto scambievole) e insieme a loro i pastori che anelavano a rinverdire il magico flusso disseccato del proprio gregge. Secoli più tardi San Bernardo di Chiaravalle, saltando ogni mediazione animale e terrena, rinforzava la sua fede attraverso una mistica lactatio che scaturiva dal seno della Vergine Maria. Ed è sintomatico che proprio in suo nome nasca la successiva avversione per il formaggio, in una chiara contrapposizione tra il latte celeste e la sua corruzione terrena:

Butyrum pingue et humidum; caseus econtra aridus et durus. Bene ergo parvulus noster eligere novit, qui butyrum comedens, caseum utique non comedit. (Bernardus Claravallensis, De adventu Domini, in Migne, Patr. Lat., 183, 42)

La profezia di Isaia (7,15) riservava al Redentore, una volta che fosse giunto su questa terra, una serafica dieta di burro e miele che sarebbe perdurata fino alla completa remissione dei peccati umani: pertanto se al burro era destinato un ruolo emendativo e salvifico, al formaggio per contro era inevitabile che spettasse quello di emblema della corruzione umana. I peccatori vengono infatti identificati dalla sostanza indurita che dissecca il loro animo, («coagulatum est sicut lac cor eorum», sentenziava Bernardo citando a sua volta il Salmo 118, 70 della Vulgata ), uomini dal cuore di formaggio destinati al torpore spirituale e corporale poiché il formaggio indurisce il cuore e appesantisce lo stomaco («caseus stomachum gravat» – Id., Sermones , Patr. Lat., 183, 939).

Nequitia casei

Il formaggio «è il cibo di Polifemo, l’uomo-bestia non toccato dal processo di civilizzazione» (Montanari). Il latte cagliato, inacidito oppure fermentato aveva da sempre costituito un vigoroso propellente per i popoli della steppa, nomadi inquieti e scalpitanti come i loro cavalli con i quali vivevano in simbiosi costante, sempre pronti a insidiare le frontiere lattofobe del Celeste Impero. Virgilio aveva immaginato il carattere delle genti italiche del Lazio in modo non troppo dissimile, ritraendo Camilla – la vergine guerriera allevata dal padre Metabo con latte di cavalla brada – come un eroina fiera e impaziente che sembrava avesse ereditato il temperamento selvaggio e indomito dell’insolita nutrice («hic natam in dumis interque horrentia lustra / armentalis equae mammis et lacte ferino/ nutribat teneris immulgens ubera labris» – Eneide, XI, 570-71).

Ma i connotati di fierezza e forza indomita sono spesso soggetti ad un avvaloramento negativo quando considerati da società che tendono a definirsi “civili” e che guardano il mondo disordinato e selvaggio dall’alto delle difese turrite poste a salvaguardia delle proprie città. L’impero cinese dispiegò la celebre muraglia non tanto per difesa, ma per sancire una separazione fisica tra civiltà e barbarie, tra le città dei sedentari e i vaganti popoli delle immense lande centro-asiatiche (Baricco, I barbari), stabilendo nel contempo una ben più duratura separazione tra i nomadi lattofili e l’impero cinese lattofobo (Camporesi, Le vie del latte).

Dall’antichità fino a pochi decenni or sono il formaggio ha pertanto interpretato il ruolo di un cibo ora rude, ora selvatico, destinato di preferenza ai palati non troppo raffinati, cibo di pastori erranti e lavoranti destinati alle fatiche fisiche più logoranti, alimento che con poca spesa era capace di nutrire stuoli di bocche inferiori, come il caseus lunensis, formaggio etrusco marchiato con l’emblema selenitico della città di Luni, le cui grandi forme, ricordava Marziale (Epigrammata, XIII, 30) ben si prestavano a nutrire i numerosi schiavi dell’aristocrazia romana.

Il formaggio rappresentava il cibo rustico per eccellenza, un alimento adatto a giovani scapestrati e «inesperti» che «stando bene di stomaco» sono «sempre pronti a mangiare» senza prudenza e buon senso, «perdigiorno, ruffiani, lestofanti, bravacci, bricconi… taglia cantoni e mangia ferri» (Folengo, Baldus, IV), compagnia preferita del giovane eroe Baldus, ma soprattutto pienamente confacente agli uomini di fatica, ai rudi lavoranti come i facchini «pasciuti di castagne e di paniccia» che scendevano alla pianura dalle montagne del bergamasco padroni soltanto delle proprie braccia (Baldus, XII).

Il collerico pittore Guido Reni, che pure non disdegnava «caci e latticini», rimandò indietro i doni di un committente delle sue tele, tra i quali una forma di «cacio piacentino portatagli sopra da duoi facchini» insieme ad altro formaggio esotico «fatto venire a posta da vari e lontani paesi», ingiungendo di riferire al loro padrone «esser quello un regalo degno solo di chi lo portava» (Malvasia, p. 69).

In breve, il formaggio era ritenuto da molti indegno di figurare su «una ben creata mensa» come riteneva il canonico veneziano Alessandro Gatti (? – 1645), in arte «Accademico Ferito delli Ardenti», autore di un’invettiva anticasearia piena di contumelie che fu parzialmente stampata nel 1635 col titolo Il formaggio biasmato, e il cui manoscritto originale è stato portato alla luce solo in tempi recenti da Franco Minonzio. Cibo spregevole come i suoi consumatori abituali, «servitori», «mendichi», contadini e pastori, persone «vili e sporche».

È pur cosa stomachevole il veder mungere animali così sozzi, come vacche pecore, capre, bufale, et cavalle, che giorno e notte nella lor feccia si aggirano, da persone poi, le cui mani sono più lorde della sporcizia stessa (Gatti, p. 69).

Il disgustato autore della feroce requisitoria passa in rassegna tutte le ragioni per cui il formaggio dovrebbe essere aborrito da un uomo sano di mente: la sporcizia appunto, anzi la natura escrementizia stessa del formaggio, il suo fetido odore, il colore morticino, l’ingrato sapore e così via biasimando. Ma è soprattutto il grave nocumento che i formaggi sono capaci di infliggere al corpo umano che viene sottolineato con particolare livore.

Tutti li formaggi sono cattivi, difficilmente si concuociono, fanno il rutto acido, empiono lo stomaco di flati, passano malamente, sono pituitosi et infiammano molto lo stomaco, sono di cattivo succo, generano la pietra nelle reni, sono molto dannosi: per il che s’hanno da fuggire non havendo cosa di buono per la concotione, e distribuzione, et insomma è di cattivo nutrimento (p. 70).

Benché l’invettiva si fondasse prevalentemente su fonti antiche e scritturali – per di più a volte manipolate ad arte – non si può certo ritenere che la nausea del Gatti fosse un fenomeno isolato: non è un caso che in quegli anni vedessero la luce opere ferocemente anticasearie che manifestavano chiaramente il punto di vista scientifico dell’epoca, frutto della riflessione di medici illustri e filosofi naturali, come il De casei nequitia. Tractatus medico-philologicus (1643) di Johannes Petrus Lotichius e il Tractatus de aversatione casei (1664) di Martinus Schoockius. L’anatema era rivolto in particolare al cacio stagionato e vecchio in cui l’azione disregolata del caglio provocava una fermentazione destinata ad acuirne l’afrore e renderne il gusto così mordace da indurre «alle lacrime» chi se ne cibava, e quindi inadatto ai palati ben creati.
Perfino un intenditore come Pantaleone da Confienza (1438?-1496) – il cosmopolita archiatra ducale di Ludovico di Savoia, autore del più antico trattato sui latticini, la Summa lacticinorum, impressa a Torino nel 1477, e che aveva viaggiato per tutta Europa, registrando le qualità dei più svariati tipi di formaggio – era costretto ad ammettere che simili caci risultavano pressoché immangiabili. Tuttavia era pur vero che risultavano «assai utili per i poveri», poiché «a causa del loro sapore piccante ne mangiano poco», e inoltre «grazie al loro pizzicore sono dispensati dall’usare spezie e sale». Sale, spezie, sostanze preziose e di difficile reperimento, non figuravano abitualmente sulle mense dei poveri insieme ad altri “sovrappiù” come la frutta (quella dei cultivar, non la selvatica) – carenza che spiega perché al villano non bisognava far sapere «quant’è buono il cascio con le pere», in quanto la frutta era destinata al proprietario dei terreni, non al fittavolo, ed era quindi un bene assai più prezioso dell’umile formaggio.

Difficile da digerire, piccante per il gusto, sgradevole alla vista per la sua sporcizia, grommoso al tatto per la sua provenienza escrementizia, penetrante per l’olfatto, facile a corrompersi e a farsi spia della putredine, il formaggio sembrava proporsi come ideale tormento dei fragili sensi umani e allo stesso tempo come banco di prova per emendarsi dalle sozzure del peccato; poteva addirittura rivelarsi un insuperabile strumento penitenziale per mettere al sicuro una fede malcerta: tale fu l’uso che ne fece la beata Margherita Maria Alacoque, con la prova a cui si sottopose per sconfiggere il suo «aborrimento grandissimo» per il formaggio.

Combattei tre dì intieri con tanta violenza, – racconta nella sua autobiografia – che muovevasi a compassione la Maestra delle novizie… Vincer doveva o morire… contro le ripugnanze della natura. Finalmente l’amor Divino della pugna riuscì vincitore… e finalmente l’eseguìi, benché non mai più grave d’allora mi abbia sperimentato l’orrore: questo tante volte rimettevasi in pie’, quante volte far dovea di bel nuovo l’istesso: e ciò fu per lo spazio di circa ott’anni. Allora sì che dopo tal sacrificio di me stessa mi si raddoppiarono tutte le grazie, e i favori del mio Supremo Signore (Alacoque, pp. 41-42).

In lode del formaggio

La redenzione del formaggio è intrecciata alla riabilitazione retorica del corpo e della materia, ancora esecrati per buona parte del XVII secolo, e deve attendere che scemi «l’utilisation violente et forcée de la matérialité» (Teyssandier) che ne aveva accompagnato l’abituale descrizione e che lo costringeva al ruolo di emblema della corruzione corporale, facendolo corrispondere alle diverse età dell’uomo: fresco come un infante; maturo come la gagliardia umana nella sua pienezza; rinsecchito, inacidito, putrido e maleodorante quando si faceva vecchio, palesando il parallelismo del disfacimento vitale delle cose del mondo.
Ovviamente non si può parlare di un atteggiamento databile con precisione: scienziati e moralisti furono senza dubbio molto più severi col latte cagliato e più a lungo. I letterati invece avevano un atteggiamento più laico, accettando spesso di buon grado la compagnia del formaggio nel loro spazio rappresentativo. Il Ruzante, ad esempio, aveva tentato di riportare l’esecrato alimento nell’alveo del buon senso degli uomini di villa, ricordando ai podagrosi gentiluomini di città che un cibo semplice, di buon nutrimento e privo di complicate elaborazioni era preferibile a tanti intingoli e piatti «saoriti» grevi per lo stomaco. Altri come Iacopo da Bientina (1473-1539) si erano spinti anche più in là, spiando voluttuosamente le donne affaccendate nella mungitura e che con «fresca mano» davano forma e anima al latte appena munto (Canto di donne, maestre di far cacio), secondo il modello ben rappresentato nella Nencia di Barberino della «pastorella» («vorre’ ti dare in una gota un bacio, / che’ è più saporita che un cacio» – Nencia, testo “P”, XXIX), fondendo i richiami erotici con le supposte proprietà afrodisiache del formaggio («l’amante tutta notte si dimena / senza posarsi mai con la sua amica, / s’egli un buon pezzo n’ ha mangiato a cena» – Bentivoglio, p. 112). Il tema delle belle formaggiaie, di cui venivano occhieggiate con compiacimento le «ben composte e dure mele», diventò un tòpos rinascimentale così diffuso che i censori della Controriforma dovettero preoccuparsi di raschiare la crosta del formaggio e di ripulirlo, cassando i brani più licenziosi come quelli della Formaggiata (1542) del conte Giulio Landi.

Allhora chi vedesse quelle pastorelle con lor capelli in bionde trecce avolti, havendo i bei guarnelli rialzati, con le bianche scarpettine minutamente tagliate e le calze di rosato tirate in gambe a penello fatte, le quali perciocché stanno all’opera piegate, fin sul genocchio quasi tutte si vedono, chi le vedesse dico, mentre il formaggio nelle tonde forme con le braccia ignude, rottonde e come il latte binche, assettono, con quanta gratia stropicciandolo se dimenano mostrando allora, per la sottigliezza del guarnello, la figura delle lor massiccie, ben composte e dure mele (Landi, p. 53 – il brano in corsivo è stato cancellato nelle edizioni del 1575 e del 1601).

Inevitabile che nel caglio intingessero la penna i cantimbanchi e i poeti di piazza come il macaronico Bartolomeo Bolla, detto il «bergamasco» che nel suo De casei stupendis laudibus (1606) celebrava i fasti della fondazione di Roma antica sotto l’egida di una «collationem» a base di «caseis Marzolinis, Parmesanis et bono vino» con la quale Romolo indusse le fanciulle dei popoli vicini a non voler più lasciare la città, infiammate d’amore per i giovani romani grazie al formaggio («in amorem juvenum Romanorum exarserunt» – Bolla, XXXIX-XL), mentre Giulio Cesare Croce, il cantastorie bolognese a cui è stato attibuito un Alfabett in lod dol bon formai, concludeva la sua cicalata con l’istrionica richiesta alla platea di tagliare per lui due belle fette di formaggio («et per sigill de st’Alfabett, / tuij scià ‘l formai, ch’n vuij mangià do fett»).

L’affrancamento del formaggio dagli interdetti scientifici e scritturali ha prodotto lentamente non solo la rivalutazione dell’alimento, ma anche un cambiamento profondo del suo statuto di cibo rustico, nonostante alcune riserve che perdurano ancora oggi (i banchetti ufficiali all’Eliseo, sotto il presidente De Gaulle, non prevedevano formaggi sulla tavola – Teyssandyer, p. 619). Destinato a divenire interclassista, il formaggio perde alcuni connotati della sua storia e della sua identità, come il Parini si era ben accorto, lamentando il definitivo congedo della «rustica Pale» dalle tavole aristocratiche (Il Meriggio, 1001-1014). Esce di scena la formaggiaia che rivaleggiava con la scienza nel definire i parametri della realtà e che «knoweth it as well as the philosopher that sour renne doth coagulate her milk into a curd» (Walter Ralegh, in Haydn, p. 209) e al suo posto avanzano i casari, la cui vocazione industriale e maschile soppianta il sapere femminile contadino. I consorzi del Grana e del Parmigiano-Reggiano eclissano il prelibato Marzolino di Lucardo, intimamente legato alla pratica artigianale, umile e nascosta, della «fresca mano» femminile, parente stretto di quei caci pecorini che Leopardi riceveva con gratitudine da casa nel freddo inverno del suo soggiorno bolognese, ripensando con nostalgia ai dolci sapori della sua patria marchigiana..

È ben giusta la sua meraviglia – scriveva al padre Monaldo il 20 febbraio 1826 – che costà non si pensi punto a far commercio di formaggi con queste parti, dove non si fa formaggio se non pochissimo e cattivo. Veramente non si può scusare l’indolenza della nostra provincia nel mettere a profitto i tanti generi squisiti che essa possiede, e che eccedono il consumo dell’interno: giacché i formaggi non sono il solo capo che manca in altre parti d’Italia, e che sarebbe ben accolto, ma noi abbiamo ancora molti e molti altri capi che da noi non si stimano e non si trovano a vendere perché soprabbondano, e altrove sarebbero ricercatissimi. (Leopardi, p. 623)

Se perfino il «croconsuelo» di Gadda «muffo, giallo, verminoso», altrimenti detto «il fetente» o «il nauseabondo» (La Cognizione del dolore, p. 542),  diventa altrove, per lo stesso autore, il classico gorgonzola «ghiotto, grasso, piccante, concupiscibile e laudabile per meraviglie verdi del capelvenere suo», quasi un oggetto di culto insomma (La meccanica, p. 489), si può proprio dire che da cibo ignobile il formaggio si è oggi trasformato in affare di stato, in difesa di origini controllate, vere o presunte, intorno alla cui identità e in nome del business planetario si azzuffano storici e avvocati, tramite agguerriti studi legali (Wu Ming, American Parmigiano).

Oppure si è fatto conoscenza arcana, composita e inattingibile, di un’elevazione eccessiva al rango di competenza specialistica e tassonomica, destinata a divenire museale come una pinacoteca dei cui quadri non si conoscano gli autori, un oggetto di culto del quale rischiamo di non conoscere il sapore e al cui cospetto vorremmo fuggire imbarazzati come il Palomar di Italo Calvino nel «museo dei formaggi»:

La formaggeria si presenta a Palomar come un’enciclopedia a un autodidatta… L’ordinazione elaborata e ghiotta che aveva intenzione di fare gli sfugge dalla memoria; balbetta; ripiega sul più ovvio, sul più banale, sul più pubblicizzato, come se gli automatismi della civiltà di massa non aspettassero che quel suo momento d’incertezza per riafferrarlo in loro balia.


Bibliografia

Testi

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