Il formaggio: nequizia e virtù
Generare il mondo In Berlinzone, l’opulenta terra dei Baschi, in cui ci si poteva permettere di legare «le vigne con le salsicce», in una contrada che si chiamava Bengodi, «eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan, che fare maccheroni, e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava, più se n’aveva: e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro un gocciol d’acqua» (Boccaccio, Decameron, VIII, 3).
Le contrade di Cuccagna evocate da Bruno e Buffalmacco, «uomini
sollazzevoli molto» quanto «avveduti e sagaci», per
irretire il “semplice” Calandrino, erano da tempo
immemorabile ben note al volgo, paesaggio onirico ma non meno
familiare dell’universo rovesciato e rutilante dove trionfavano
gli appetiti del corpo e delle viscere, ben delineati dal massimo
rappresentante e reggitore del mondo «a capinculo» lo
«squaquaratissimo, sloffeggiantissimo, ingordissimo,
sfondatissimo diluviatore Signor Carnevale», un tempo in cui si
poteva, anzi era prescritto, lasciare libera la fantasia e
l’illusione di «sbevazare papare sgolazare squaquarare
trachanare ingultire lecare stragualzare surbire et gualcire robbe
delicate bone et sbilisighente». Nell’immaginario dei
ceti popolari il Carnevale rappresentava il rovesciamento del tempo
presente dominato dalla sottoalimentazione (non a caso il primo
pensiero di Calandrino, attivato da un pavloviano languore, è
quello di informarsi sulla sorte dei capponi, una volta terminata la
loro funzione di arricchire il brodo), un tempo sovvertitore di
gerarchie sociali e destini quotidiani in cui il capovolgimento
generale del gramo mondo quaresimale culminava in un’orgiastica
aspirazione proteica, dove i capponi rappresentavano l’oggetto
proibito del desiderio, mentre il formaggio con la sua realtà
tangibile e plebea sembrava destinato a tenere insieme, come un
cremoso collante, la celebrazione dell’eccesso con il mondo
quotidiano, moltiplicando l’ambito del possibile alimentare con
la smisurata disponibilità di un ingrediente universale e
magico che prendeva il posto della terra sostituendone isole e
montagne.
Nel paese di Cuccagna «dove chi più dorme più
guadagna» il formaggio è di norma l’elemento più
rappresentato dell’iperbole alimentare: in una stampa popolare
romana del XVIII secolo, conservata presso la collezione Bertarelli a
Milano, la tradizionale cornucopia del latte cagliato trovava ancora
una inesausta rappresentazione: al centro campeggia una «montagna
grandissima di cascio grattato» sulla cui sommità una
«caldara larga un miglio» bolle in continuazione,
eruttando «macheroni et ravioli, quali razzolando per lo cascio
cascano giù nel lago di buturo squagliato» per la
delizia ed il sollazzo di chi «ne piglia e mangia suo piacere»
insieme a fette di provole («provature fresche»). Altrove
svetta una seconda montagna di «provature marzoline»
circondata da un fiume di latte da cui affiorano «groppi»
di ricotte, che del resto sembrano trovarsi in ogni dove, sparse nel
paesaggio insieme alle vigne legate con salsicce e agli asini
impastoiati con «salsiccioni». Il
formaggio è dunque un alimento terreno (anzi, terrestre)
fino al punto di sostituire l’humus e la crosta del mondo
calpestato dall’irrequieto andirivieni umano. Tuttavia, pur
mantenendo pressoché intatto e ben radicato nei secoli
l’evidente connotato mondano, è stato non di rado
ritenuto capace di esprimere sottili influssi celesti e spirituali,
seguendo lo schema che accosta il magico ruolo del caglio – col
suo prodigioso potere di trasformare la materia lattea – al
soffio divino ispiratore e animatore della generazione umana, lo
spirito che dà anima al corpo. In una celebre visione della
mistica Ildegarda di Bingen (1098-1179) l’alito divino è
rappresentato, in una miniatura del Codice di Rupertsberg, come un
rombo celeste che insuffla un caglio vivificante nel frutto del
concepimento umano, inerte nel ventre della madre. Tutto intorno
uomini (antenati del nascituro) che producono formaggi («caseos
conficientes») con diverse qualità di latte: formaggi
maturi e robusti («fortes») vengono manufatti da latte
grasso e cremoso («pars spissa»), formaggi teneri
(«debiles casei coagulati sunt») da latte scremato («pars
tenuis»), mentre dai residui di latte misto a siero («pars
tabe permista») ricavano un formaggio amaro ed effimero («amari
casei processerunt») in cui il diavolo versa il germe della
corruzione, chiare metafore delle diverse specie dei semi umani che,
tuttavia, l’afflato divino e il dono dell’anima sono in
grado di trasformare in uomini in grado, nessuno escluso, di
conquistare la beatitudine celeste (Hildegardis, Scivias, in
Migne, Patr. Lat., 197 coll. 415 e 423).
Io ho detto che quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos… Nel principio questo mondo era niente, et… dall’acqua del mare fu batuto come una spuma, et si coagulò come un formaggio, dal quale poi nacque gran moltitudine di vermi, et questi vermi diventorno homini, delli quali il più potente e il più sapiente fu Iddio. L’opinione
di Menocchio richiamava una conoscenza pratica e concreta comune ai
pastori Calmucchi dell’Altai che sembra rappresentare, aggiunge
Ginzburg, «l’esistenza di una tradizione cosmologica
millenaria che… congiunse il mito alla scienza»,
impressione che si ricava anche dall’archeologia etimologia che
spiega la forma del nome ‘caseum’ come derivato di un
medio neolitico ‘coagulum’ (Alinei, pp. 96-7) l’iconimo
di partenza si sarebbe quindi definito in base all’esperienza
della cagliatura, rispecchiando pienamente l’immaginazione
cosmogonica di Menocchio, figlia di quel pensiero arcaico a cui «è
ignota la separazione fra organico e inorganico» (Camporesi, Le
vie del latte).
Butyrum pingue et humidum; caseus econtra aridus et durus. Bene ergo parvulus noster eligere novit, qui butyrum comedens, caseum utique non comedit. (Bernardus Claravallensis, De adventu Domini, in Migne, Patr. Lat., 183, 42) La profezia di Isaia (7,15) riservava al Redentore, una volta che fosse giunto su questa terra, una serafica dieta di burro e miele che sarebbe perdurata fino alla completa remissione dei peccati umani: pertanto se al burro era destinato un ruolo emendativo e salvifico, al formaggio per contro era inevitabile che spettasse quello di emblema della corruzione umana. I peccatori vengono infatti identificati dalla sostanza indurita che dissecca il loro animo, («coagulatum est sicut lac cor eorum», sentenziava Bernardo citando a sua volta il Salmo 118, 70 della Vulgata ), uomini dal cuore di formaggio destinati al torpore spirituale e corporale poiché il formaggio indurisce il cuore e appesantisce lo stomaco («caseus stomachum gravat» – Id., Sermones , Patr. Lat., 183, 939).
Nequitia casei
Il formaggio «è il cibo di Polifemo, l’uomo-bestia non toccato dal processo di civilizzazione» (Montanari). Il latte cagliato, inacidito oppure fermentato aveva da sempre costituito un vigoroso propellente per i popoli della steppa, nomadi inquieti e scalpitanti come i loro cavalli con i quali vivevano in simbiosi costante, sempre pronti a insidiare le frontiere lattofobe del Celeste Impero. Virgilio aveva immaginato il carattere delle genti italiche del Lazio in modo non troppo dissimile, ritraendo Camilla – la vergine guerriera allevata dal padre Metabo con latte di cavalla brada – come un eroina fiera e impaziente che sembrava avesse ereditato il temperamento selvaggio e indomito dell’insolita nutrice («hic natam in dumis interque horrentia lustra / armentalis equae mammis et lacte ferino/ nutribat teneris immulgens ubera labris» – Eneide, XI, 570-71). Ma i connotati di fierezza e forza indomita sono spesso soggetti ad un avvaloramento negativo quando considerati da società che tendono a definirsi “civili” e che guardano il mondo disordinato e selvaggio dall’alto delle difese turrite poste a salvaguardia delle proprie città. L’impero cinese dispiegò la celebre muraglia non tanto per difesa, ma per sancire una separazione fisica tra civiltà e barbarie, tra le città dei sedentari e i vaganti popoli delle immense lande centro-asiatiche (Baricco, I barbari), stabilendo nel contempo una ben più duratura separazione tra i nomadi lattofili e l’impero cinese lattofobo (Camporesi, Le vie del latte). Dall’antichità fino a pochi decenni or sono il formaggio ha pertanto interpretato il ruolo di un cibo ora rude, ora selvatico, destinato di preferenza ai palati non troppo raffinati, cibo di pastori erranti e lavoranti destinati alle fatiche fisiche più logoranti, alimento che con poca spesa era capace di nutrire stuoli di bocche inferiori, come il caseus lunensis, formaggio etrusco marchiato con l’emblema selenitico della città di Luni, le cui grandi forme, ricordava Marziale (Epigrammata, XIII, 30) ben si prestavano a nutrire i numerosi schiavi dell’aristocrazia romana. Il formaggio rappresentava il cibo rustico per eccellenza, un alimento adatto a giovani scapestrati e «inesperti» che «stando bene di stomaco» sono «sempre pronti a mangiare» senza prudenza e buon senso, «perdigiorno, ruffiani, lestofanti, bravacci, bricconi… taglia cantoni e mangia ferri» (Folengo, Baldus, IV), compagnia preferita del giovane eroe Baldus, ma soprattutto pienamente confacente agli uomini di fatica, ai rudi lavoranti come i facchini «pasciuti di castagne e di paniccia» che scendevano alla pianura dalle montagne del bergamasco padroni soltanto delle proprie braccia (Baldus, XII). Il collerico pittore Guido Reni, che pure non disdegnava «caci e latticini», rimandò indietro i doni di un committente delle sue tele, tra i quali una forma di «cacio piacentino portatagli sopra da duoi facchini» insieme ad altro formaggio esotico «fatto venire a posta da vari e lontani paesi», ingiungendo di riferire al loro padrone «esser quello un regalo degno solo di chi lo portava» (Malvasia, p. 69). In breve, il formaggio era ritenuto da molti indegno di figurare su «una ben creata mensa» come riteneva il canonico veneziano Alessandro Gatti (? – 1645), in arte «Accademico Ferito delli Ardenti», autore di un’invettiva anticasearia piena di contumelie che fu parzialmente stampata nel 1635 col titolo Il formaggio biasmato, e il cui manoscritto originale è stato portato alla luce solo in tempi recenti da Franco Minonzio. Cibo spregevole come i suoi consumatori abituali, «servitori», «mendichi», contadini e pastori, persone «vili e sporche». È pur cosa stomachevole il veder mungere animali così sozzi, come vacche pecore, capre, bufale, et cavalle, che giorno e notte nella lor feccia si aggirano, da persone poi, le cui mani sono più lorde della sporcizia stessa (Gatti, p. 69). Il disgustato autore della feroce requisitoria passa in rassegna tutte le ragioni per cui il formaggio dovrebbe essere aborrito da un uomo sano di mente: la sporcizia appunto, anzi la natura escrementizia stessa del formaggio, il suo fetido odore, il colore morticino, l’ingrato sapore e così via biasimando. Ma è soprattutto il grave nocumento che i formaggi sono capaci di infliggere al corpo umano che viene sottolineato con particolare livore. Tutti li formaggi sono cattivi, difficilmente si concuociono, fanno il rutto acido, empiono lo stomaco di flati, passano malamente, sono pituitosi et infiammano molto lo stomaco, sono di cattivo succo, generano la pietra nelle reni, sono molto dannosi: per il che s’hanno da fuggire non havendo cosa di buono per la concotione, e distribuzione, et insomma è di cattivo nutrimento (p. 70). Benché
l’invettiva si fondasse prevalentemente su fonti antiche e
scritturali – per di più a volte manipolate ad arte –
non si può certo ritenere che la nausea del Gatti fosse un
fenomeno isolato: non è un caso che in quegli anni vedessero
la luce opere ferocemente anticasearie che manifestavano chiaramente
il punto di vista scientifico dell’epoca, frutto della
riflessione di medici illustri e filosofi naturali, come il De
casei nequitia. Tractatus medico-philologicus (1643) di Johannes
Petrus Lotichius e il Tractatus de aversatione casei (1664) di
Martinus Schoockius. L’anatema era rivolto in particolare al
cacio stagionato e vecchio in cui l’azione disregolata del
caglio provocava una fermentazione destinata ad acuirne l’afrore
e renderne il gusto così mordace da indurre «alle
lacrime» chi se ne cibava, e quindi inadatto ai palati ben
creati. Difficile da digerire, piccante per il gusto, sgradevole alla vista per la sua sporcizia, grommoso al tatto per la sua provenienza escrementizia, penetrante per l’olfatto, facile a corrompersi e a farsi spia della putredine, il formaggio sembrava proporsi come ideale tormento dei fragili sensi umani e allo stesso tempo come banco di prova per emendarsi dalle sozzure del peccato; poteva addirittura rivelarsi un insuperabile strumento penitenziale per mettere al sicuro una fede malcerta: tale fu l’uso che ne fece la beata Margherita Maria Alacoque, con la prova a cui si sottopose per sconfiggere il suo «aborrimento grandissimo» per il formaggio. Combattei tre dì intieri con tanta violenza, – racconta nella sua autobiografia – che muovevasi a compassione la Maestra delle novizie… Vincer doveva o morire… contro le ripugnanze della natura. Finalmente l’amor Divino della pugna riuscì vincitore… e finalmente l’eseguìi, benché non mai più grave d’allora mi abbia sperimentato l’orrore: questo tante volte rimettevasi in pie’, quante volte far dovea di bel nuovo l’istesso: e ciò fu per lo spazio di circa ott’anni. Allora sì che dopo tal sacrificio di me stessa mi si raddoppiarono tutte le grazie, e i favori del mio Supremo Signore (Alacoque, pp. 41-42). In lode del formaggio La
redenzione del formaggio è intrecciata alla riabilitazione
retorica del corpo e della materia, ancora esecrati per buona parte
del XVII secolo, e deve attendere che scemi «l’utilisation
violente et forcée de la matérialité»
(Teyssandier) che ne aveva accompagnato l’abituale descrizione
e che lo costringeva al ruolo di emblema della corruzione corporale,
facendolo corrispondere alle diverse età dell’uomo:
fresco come un infante; maturo come la gagliardia umana nella sua
pienezza; rinsecchito, inacidito, putrido e maleodorante quando si
faceva vecchio, palesando il parallelismo del disfacimento vitale
delle cose del mondo. Allhora chi vedesse quelle pastorelle con lor capelli in bionde trecce avolti, havendo i bei guarnelli rialzati, con le bianche scarpettine minutamente tagliate e le calze di rosato tirate in gambe a penello fatte, le quali perciocché stanno all’opera piegate, fin sul genocchio quasi tutte si vedono, chi le vedesse dico, mentre il formaggio nelle tonde forme con le braccia ignude, rottonde e come il latte binche, assettono, con quanta gratia stropicciandolo se dimenano mostrando allora, per la sottigliezza del guarnello, la figura delle lor massiccie, ben composte e dure mele (Landi, p. 53 – il brano in corsivo è stato cancellato nelle edizioni del 1575 e del 1601). Inevitabile che nel caglio intingessero la penna i cantimbanchi e i poeti di piazza come il macaronico Bartolomeo Bolla, detto il «bergamasco» che nel suo De casei stupendis laudibus (1606) celebrava i fasti della fondazione di Roma antica sotto l’egida di una «collationem» a base di «caseis Marzolinis, Parmesanis et bono vino» con la quale Romolo indusse le fanciulle dei popoli vicini a non voler più lasciare la città, infiammate d’amore per i giovani romani grazie al formaggio («in amorem juvenum Romanorum exarserunt» – Bolla, XXXIX-XL), mentre Giulio Cesare Croce, il cantastorie bolognese a cui è stato attibuito un Alfabett in lod dol bon formai, concludeva la sua cicalata con l’istrionica richiesta alla platea di tagliare per lui due belle fette di formaggio («et per sigill de st’Alfabett, / tuij scià ‘l formai, ch’n vuij mangià do fett»). L’affrancamento del formaggio dagli interdetti scientifici e scritturali ha prodotto lentamente non solo la rivalutazione dell’alimento, ma anche un cambiamento profondo del suo statuto di cibo rustico, nonostante alcune riserve che perdurano ancora oggi (i banchetti ufficiali all’Eliseo, sotto il presidente De Gaulle, non prevedevano formaggi sulla tavola – Teyssandyer, p. 619). Destinato a divenire interclassista, il formaggio perde alcuni connotati della sua storia e della sua identità, come il Parini si era ben accorto, lamentando il definitivo congedo della «rustica Pale» dalle tavole aristocratiche (Il Meriggio, 1001-1014). Esce di scena la formaggiaia che rivaleggiava con la scienza nel definire i parametri della realtà e che «knoweth it as well as the philosopher that sour renne doth coagulate her milk into a curd» (Walter Ralegh, in Haydn, p. 209) e al suo posto avanzano i casari, la cui vocazione industriale e maschile soppianta il sapere femminile contadino. I consorzi del Grana e del Parmigiano-Reggiano eclissano il prelibato Marzolino di Lucardo, intimamente legato alla pratica artigianale, umile e nascosta, della «fresca mano» femminile, parente stretto di quei caci pecorini che Leopardi riceveva con gratitudine da casa nel freddo inverno del suo soggiorno bolognese, ripensando con nostalgia ai dolci sapori della sua patria marchigiana.. È ben giusta la sua meraviglia – scriveva al padre Monaldo il 20 febbraio 1826 – che costà non si pensi punto a far commercio di formaggi con queste parti, dove non si fa formaggio se non pochissimo e cattivo. Veramente non si può scusare l’indolenza della nostra provincia nel mettere a profitto i tanti generi squisiti che essa possiede, e che eccedono il consumo dell’interno: giacché i formaggi non sono il solo capo che manca in altre parti d’Italia, e che sarebbe ben accolto, ma noi abbiamo ancora molti e molti altri capi che da noi non si stimano e non si trovano a vendere perché soprabbondano, e altrove sarebbero ricercatissimi. (Leopardi, p. 623) Se perfino il «croconsuelo» di Gadda «muffo, giallo, verminoso», altrimenti detto «il fetente» o «il nauseabondo» (La Cognizione del dolore, p. 542), diventa altrove, per lo stesso autore, il classico gorgonzola «ghiotto, grasso, piccante, concupiscibile e laudabile per meraviglie verdi del capelvenere suo», quasi un oggetto di culto insomma (La meccanica, p. 489), si può proprio dire che da cibo ignobile il formaggio si è oggi trasformato in affare di stato, in difesa di origini controllate, vere o presunte, intorno alla cui identità e in nome del business planetario si azzuffano storici e avvocati, tramite agguerriti studi legali (Wu Ming, American Parmigiano). Oppure si è fatto conoscenza arcana, composita e inattingibile, di un’elevazione eccessiva al rango di competenza specialistica e tassonomica, destinata a divenire museale come una pinacoteca dei cui quadri non si conoscano gli autori, un oggetto di culto del quale rischiamo di non conoscere il sapore e al cui cospetto vorremmo fuggire imbarazzati come il Palomar di Italo Calvino nel «museo dei formaggi»: La formaggeria si presenta a Palomar come un’enciclopedia a un autodidatta… L’ordinazione elaborata e ghiotta che aveva intenzione di fare gli sfugge dalla memoria; balbetta; ripiega sul più ovvio, sul più banale, sul più pubblicizzato, come se gli automatismi della civiltà di massa non aspettassero che quel suo momento d’incertezza per riafferrarlo in loro balia. BibliografiaTestiAlacoque M., Vita della venerabile Madre Margherita Alacoque, Zatta, Venezia 1784. Anonimo, Processo e confessione del squaquarante Carnevael, s.l.a. e n.t. [secolo XVI]. Anonimo, La Cuccagna. 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