Il mondo a testa in giù.
Le meravigliose contrade degli Antipodi.
di
Alberto Natale
Cfr. "Griseldaonline", A rovescio, numero VII, 2007-2008
http://www.griseldaonline.it/percorsi/7Natale.htm
Nella plurimillenaria disputa
sull’esistenza di un popolo abitante nelle inaccessibili contrade degli
antipodi occorre distinguere in via preliminare le teorie che ritenevano
possibile l’esistenza di luoghi abitabili, ma inaccessibili, dalle credenze
sugli eventuali abitanti di quelle remote regioni della terra.
Sfatando il tenacissimo mito geografico moderno che vorrebbe l’immaginario precolombiano
tutto inteso a concepire l’idea di una terra piatta e bidimensionale, secondo
la quale l’esistenza di un sopra e di un sotto, di un dritto e di un rovescio
non erano concepibili per il senso comune, la sfericità del mondo (o almeno la
sua tridimensionalità) fu ritenuta non solo possibile, ma addirittura ovvia fin
dai tempi più antichi. Non mancarono obiezioni e distinguo, ma a parte poche
eccezioni non erano molti gli uomini di cultura capaci di prestare fede
all’immagine di un pianeta trapezoidale e oblungo, vagante negli spazi a
riprodurre simbolicamente la forma del tabernacolo di Mosè, come voleva Cosma Indicopleuste nella sua Topografia cristiana.
Il motivo della sfericità della terra che ruota intorno al fuoco centrale era presente già
nella tradizione pitagorica. Platone attribuì al suo mistico caposcuola anche
l’onore di aver concepito una teoria degli antipodi (anche se Pitagora aveva
parlato piuttosto di antiterra) e nel Timeo
trattò l’argomento utilizzando, secondo le fonti antiche, per primo il termine
antipous. Platone, nel Fedone, accennò inoltre ad una comunicazione
sotterranea con la regione antipodica, destinata a diventare un riferimento
topico per la maggior parte dei futuri viaggi nell’altro emisfero, un immenso
baratro che trapassava la terra da parte a parte, il Tartaro, abisso nel quale tutti i fiumi della terra confluivano
e defluivano e luogo deputato alle anime purganti dei defunti.
L’accesso all’altro emisfero non si presentava semplice e per molti secoli l’idea di un
passaggio sotterraneo rimase l’unica concepibile, come si vedrà più avanti,
ancora ben oltre la spedizione di Ferdinando Magellano. Le vie marittime e
terrestri di superficie risultavano infatti impraticabili in base alla celebre teoria
delle zone che suddivideva il globo in due fasce frigide ai poli e due
temperate in entrambi gli emisferi, separate tuttavia da una invalicabile zona
infuocata e torrida che impediva qualsiasi possibilita di passaggio. Già
formulata da Aristotele, tale teoria trovò con Eratostene la sua definitiva
consacrazione. Non a caso uno dei pochi frammenti dell’Hermes giunti
fino a noi illustra in modo vivido la rappresentazione geografica della
superficie terrestre e il tema degli antipodi:
Cinque zone la circondavano tutt’attorno
Due erano più cupe di smalto blu
Un’altra arida e rossa, come di fuoco.
Quella che sta in mezzo era tutta bruciata
Colpita dalla vampa del sole, ché sotto la Canicola giace
E la bruciano raggi dal calore incessante.
Ma le due da entrambi i lati, intorno ai poli,
sono sempre ghiacciate, sempre son umide d’acqua:
ma non è acqua, è ghiaccio puro che viene dal cielo
che giace lì e copre la terra, e un freddo intenso vi regna.
Ma quelle asciutte ... [caduta una porzione di testo]
... inabitabili dagli uomini.
Due ve ne erano ancora, opposte l’una all’altra
Fra il calore del fuoco e il ghiaccio piovuto dal cielo
Entrambe regioni temperate, fertili di messi
Il frutto di Demetra Eleusina: lì vivono
Gli uomini, antipodi gli uni rispetto agli altri1.
Rielaborata da Cratete di Mallo - che fece coincidere la zona torrida con l’Oceano, ipotizzando un ulteriore
anello oceanico perpendicolare al primo, tanto da dare origine a una forma
quadripartita del globo che gli antichi identificarono con la lettera greca
Θ (teta) e che Macrobio definirà «terra quadrifida» - la teoria delle
zone passò nella latinità fino alla celebre esposizione ciceroniana del Somnium
Scipionis e da qui, grazie al commentario di Macrobio, si propose come il principale
modello teorico di riferimento per la prima cristianità e per gran parte del
Medioevo.
Gli avversari di tale immagine del mondo non mancarono, basti pensare all’epicureismo e agli
spunti satirici con cui Lucrezio ironizzava sugli animali che
nell’altro emisfero andrebbero vagando con la testa in giù nell’aria, senza
poter cadere a terra («Et simili ratione animalia suppa vagari / contendunt
neque posse e terriis in loca coeli / reccidere inferiora»): ma tale
opposizione alle idee di sfericità terrestre e di moto centripeto dei gravi
trovava la sua principale forza più nella saldatura con il senso comune, incapace
di accettare l’idea di un mondo a testa in giù, che non nell’immaginario
scientifico prevalente.
Il nodo cruciale non era tanto che esistessero le regioni agli antipodi del nostro
mondo conosciuto, ma che queste contrade fossero abitabili o abitate. Lo scetticismo in tal caso era molto più marcato,
tanto da diventare un tòpos della poesia greca e della satira menippea.
Luciano, erede di Menippo, mostrava come il tema degli abitanti degli antipodi
potesse essere argomento ideale per il racconto fantastico, concludendo così il
secondo libro della sua Storia vera.
Alle prime luci dell’alba avvistammo il continente e
supponemmo fosse quello che si trova agli antipodi della terra abitata da noi.
Prostratici e ringraziati gli dei con le debite preghiere, cominciammo a
riflettere su quello che dovevamo fare a quel punto: certi consigliavano di
scendere appena, e di ritornare indietro, altri di abbandonare lì la nave e di
inoltrarci nel cuore di quella terra per vedere che genti l’abitassero. Ma,
mentre stavamo discutendo, si abbattè su di noi una violenta tempesta che
scaraventò la nave sulla spiaggia, riducendola in pezzi, tanto che noi a
malapena siamo riusciti a salvarci a nuoto, recuperando le armi e tutto quanto
c’è stato possibile strappare alla furia delle onde. Ecco le mie vicende fino
all’arrivo nell’altro mondo, in mare e durante la navigazione tra le isole e
nello spazio, poi nel ventre della balena, e, una volta uscito di là, nel paese
degli Eroi e in quello dei Sogni, e, alla fine, tra i Testadibue e le
Gambedasino: le mie avventure nell’altro continente, però, ve le racconterò nei
libri successivi2.
Libri che, naturalmente, l’autore si guardò bene dallo scrivere, fedele del resto anche nell’ultima menzogna alla
materia parodistica del suo romanzo. Benché apertamente in contrasto fra loro
le visioni di Lucrezio e di Cicerone sembrano per contro convergere nel mostrare
l’illusorietà di quelle aspirazioni di dominio universale e di sogno imperiale
che a tratti emergevano come spinte potenti dell’ambizione di Roma, profezie di
conquista espresse per esempio da poeti come Virgilio,
nel libro I dell’Eneide, e soprattutto da Orazio
nel terzo libro delle Odi in cui viene pronosticato che Roma conquisterà
con le armi ogni confine della terra «nella brama / di vedere la zona dove
infuria il fuoco / e dove le pioggie ricadono, e le nebbie»3. Manilio
ci ha lasciato una significativa descrizione dell’alter orbis, che sembra
considerare gli Antipodi (con i loro reami e le operose città) alla stregua di
una qualsiasi popolazione inserita nel caleidoscopio della geografia della
romanità, un impero su cui il sole non tramonta mai:
Intorno alla terra varie stirpi di uomini e di animali
vivono, e gli uccelli del cielo. Una parte s’innalza fino alle Orse
e l’altra parte abitabile s’estende nelle regioni australi:
sta sotto i nostri piedi, ma a loro sembra star sopra
poiché il suolo dissimula la sua curvatura
e la superficie del globo a un tempo s’innalza e s’abbassa.
Quando il Sole, al tramonto da noi, guarda questa regione
Là il nuovo giorno risveglia le città addormentate
E con la luce riporta a quelle terre attività e fatiche;
noi siamo immersi nella notte e abbandoniamo al sonno le membra:
gli uni e gli altri il mare divide e congiunge con le sue onde.
[...]
Sotto di esse [le costellazioni australi] giace un’altra parte di mondo, irraggiungibile a noi
E ignote stirpi di uomini, e reami mai attraversati
Che ricevon la luce dal nostro medesimo sole
E ombre opposte alle nostre, con astri che a sinistra tramontano
E sorgono a destra, in un cielo a rovescio del nostro4.
Sono terre sfortunatamente ancora irraggiungibili, ma che in un’ottica
espansionistica ormai matura, occorrerebbe congiungere con rotte commerciali,
per cercare sotto altri soli, nuovi guadagni («per ignotas commercia iungere
terras / atque alio sub sole novas exquirere praedas»5.
Mito geografico e desiderio espansionista, intesi come certificazione di un’indiscussa
supremazia sul mondo, gareggiavano insieme quindi nel vagheggiare un allargamento
del mondo conosciuto, ma rimanevano tuttavia frenati dall’incertezza e dalla
percezione di quanto potesse essere pericoloso infrangere quelle leggi naturali
che proteggevano le terre degli antipodi con oceani turbinosi, nebbie
caliginose e malsane, tenebre fitte e indissipabili, per raggiungere le quali,
oltretutto, occorreva attraversare i deserti infuocati che, come le spade
fiammeggiante dei cherubini a guardia dell’Eden, tenevano alla larga gli
uomini, respingendo la loro hybris e frustrando il desiderio di
accrescere dominio e conoscenza universale. Il progressivo sfaldarsi
dell’impero toglierà completamente linfa all’immaginario delle terre australi e
il sorgere dell’era cristiana accoglierà con malcelata sufficienza la quaestio
che così a lungo aveva affascinato l’antichità. Sidonio Apollinare, dichiarava
emblematicamente di volersi lasciare alle spalle l’eredità mentale pagana,
rifiutando proprio quei temi che più l’avevano caratterizzata, a cominciare da
quello degli Antipodi.
Io non voglio correre per una via ritrita
Né troverai qui un luogo dove la mia Musa
Segua le antiche tracce dei miei predecessori.
Non canterò gli Antipodi, né il Mar Rosso,
né gli indiani, figli di Memmone,
bruciati dal sole che da laggiù si leva6.
Il desiderio di raggiungere gli antipodi sembra assopirsi e il mito tende a
cristallizzarsi per sopravvivere sotto forma di argomentazione retorica o di
motivo descrittivo ornamentale e come tale, testimoniando la duratura
consuetudine di un elemento decorativo ben noto alla tradizione latina, lo si
ritroverà nove secoli più tardi in alcuni versi del Canzoniere di
Petrarca:
Ne la stagion che ‘l ciel rapido inchina
Verso occidente, et che ‘l dì nostro vola
A gente che di là forse l’aspetta.
[...]
Quando la sera scaccia il chiaro giorno,
et le tenebre nostre altrui fanno alba7.
Con l’affermarsi del pensiero cristiano l’idea che popoli sconosciuti potessero abitare le regioni australi
subisce un’ imprevedibile eclisse: la teoria delle zone, combinata con
gli assunti dottrinali e teologici che postulavano da un lato un’unica stirpe
adamitica e dall’altro l’universalità del messaggio di redenzione di Cristo,
rendeva irragionevole l’esistenza di uomini che potessero vivere segregati gli
uni rispetto agli altri in zone inaccessibili del pianeta o che risultassero
esclusi dalla predicazione universale della Buona Novella. Sant’Agostino espose
con grande chiarezza i termini del problema:
Non v’è dimostrazione scientifica per
ammettere quel che alcuni favoleggiano sulla esistenza degli antipodi, cioè che
uomini calcano le piante dei piedi in senso inverso ai nostri dall’altra parte
della terra, dove il sole sorge quando da noi tramonta. Non affermano infatti
di averlo appreso in seguito a una esperienza storicamente verificatasi, ma prospettano
col ragionamento una ipotesi perché la terra sarebbe sospesa nella volta del
cielo e avrebbe lo stesso spazio in basso e al centro. Suppongono perciò che
l’altra faccia della terra, quella di sotto, non può esser priva di abitanti.
Non riflettono, anche se si ritiene per teoria o si dimostra scientificamente
che il pianeta è un globo e ha la forma sferica, sulla non consequenzialità che
anche dall’altra parte la terra è libera dalla massa delle acque e anche se ne
è libera, non ne consegue necessariamente, di punto in bianco, che è abitata
dagli uomini. Difatti in nessun modo la sacra Scrittura mentisce perché con la
narrazione dei fatti del passato garantisce l’attendibilità che le sue
predizioni si avverino. D’altronde è troppo assurda l’affermazione che alcuni
uomini, attraversata l’immensità dell’Oceano, poterono navigare e giungere da
questa all’altra parte della terra in modo che anche là si stabilisse la specie
umana dall’unico progenitore8.
L’autorità del vescovo di Ippona sembrava porre una pietra tombale sull’argomento e un freno definitivo alle
ambizioni umane di conquista materiale o intellettuale: la sanzione dantesca al
«folle volo» di Ulisse, che può solo intravedere di lontano la montagna del
Purgatorio, e quindi degli antipodi, prima di venir rapito e inabissato dal
turbine dell’oceano, ratifica la separazione definitiva tra “conoscenza pagana”
e “conoscenza cristiana”. Benché condannato ufficialmente dalla Chiesa, il
motivo degli abitanti delle terre australi continuò tuttavia a manifestarsi
vivacemente nei leggendari ispirati al patrimonio folklorico nordico. In questa
prospettiva leggendaria e avventurosa si inquadra l’Artù sovrano degli Antipodi
del Draco Normannicus di Stefano di Rouen, composto fra il 1167 e il
1170, invitato per lettera dal conte bretone Roland a lasciare gli agi del suo
reame per accorrere in difesa del suo popolo minacciato, e in cui lo scambio di
lettere tra Artù, Roland ed Enrico II sembra svolgersi in base al modello di
relazioni epistolari che il capostipite dei sovrani universali, Alessandro il
macedone, intratteneva con i re avversari secondo il Romanzo d’Alessandro.
In Irlanda il tema si fuse con i racconti dei viaggi per mare alla ricerca delle Isole
Fortunate e del Paradiso Terrestre (come nella Navigatio Sancti
Brandani) e con la mitologia del Pozzo di San Patrizio, mantenendo aperto
nell’immaginazione quel collegamento occulto che si riteneva potesse idealmente
congiungere i due emisferi: un mito suggestivo e tenace capace di alimentare
l’idea di quel mondo, rovesciato rispetto alla nostra realtà, che poteva dare
asilo a creature leggendarie o, in alternativa, rappresentare la dimora in cui le
anime dei defunti trovavano quiete, raggiungibile quindi lungo itinerari
sotterranei e inferi, attraverso viaggi a metà strada fra l’anelito di scoperta
e la necessità iniziatica, ancora ben rappresentati in tempi a noi molto vicini
nel Voyage au centre de la Terre di Jules Verne. La derivazione
folklorica dei percorsi attraverso le viscere della terra traspare chiaramente
in un resoconto degli Otia imperialia (1212 ca.) di Gervasio di Tilbury
che, come è noto, conteneva anche una versione della presunta Lettera di
Alessandro ad Aristotele:
In Britannia vi è un castello posto su di una
montagna, a cui il popolo ha dato il nome di Peak. Le sue mura sono
difficilmente espugnabili, e nel monte vi è una profonda caverna che, come un
mantice, di tempo in tempo soffia fuori un vento violentissimo. La gente si
chiede con stupore da dove venga un vento così forte, e fra le molte storie
meravigliose che là si raccontano a questo proposito, ho sentito raccontare
questa dal piissimo Roberto, priore di Kenilworth, che è originario di quei
luoghi. Il proprietario del suddetto castello con la baronia adiacente era il
nobile Guglielmo Peverell, uomo coraggioso e potente, e ricco di diversi
animali. Un giorno un suo pastore, facendo con pigrizia il lavoro affidatogli,
perse una scrofa di particolare pregio, e per di più gravida. Temendo di essere
rimproverato aspramente dal padrone per questa grave perdita, pensò se per caso
quella scrofa potesse essere entrata in quella celebre caverna chiamata Peak,
rimasta fino a quel momento inesplorata. Si mise allora in animo di esplorare
quel luogo nascosto. Entrò pertanto nella caverna, in quel momento priva di
vento, e dopo aver camminato per lunghissimo tratto, finalmente, dopo tanta
oscurità, giunse in un luogo luminoso, dove si apriva una grande pianura. Entrò
allora in quella terra, che fino a perdita d’occhio era tutta coltivata, e trovò
dei mietitori che stavano raccogliendo il grano ormai maturo: riconobbe allora
fra le spighe la sua scrofa, che aveva partorito i suoi porcellini. Preso da
una grande stupefazione, il pastore, rincuoratosi per aver ritrovato ciò che
aveva perso, raccontò le cose come erano avvenute al signore di quella terra;
riprese la sua scrofa e congedatosi di laggiù con gioia si avviò a riportarla
fra gli altri suoi maiali. Cosa straordinaria, venendo da quel luogo
sotterraneo dove già si raccoglievano le messi, vide che nel nostro emisfero
continuava ad esserci il freddo dell’inverno: fenomeno che io ritengo vada
attribuito all’assenza di sole dalla nostra parte, e alla sua presenza
dall’altra9.
Nella vicenda narrata da Gervasio gli Antipodi appaiono del tutto simili a noi, eccetto che per la specularità
inversa dei ritmi stagionali che caratterizzano il loro emisfero; anzi, le loro
contrade sembrano mostrare all’occhio stupito del pastore di scrofe un maggior
senso di ordine, una fecondità di messi e addirittura uno spirito ospitale
superiore alle fredde, ventose e cavernose lande inglesi, quasi a voler
rimettere in discussione l’antico assioma delle tenebrose regioni australi
spazzate da turbini impetuosi, con un rovesciamento prospettico di chiara derivazione
dalla mitologia del Paradiso Terrestre.
Per contro una diffusa tendenza medievale ad aggirare l’interdetto agostiniano
sull’inabitabilità delle regioni antipodiche si manifestò con l’opinione che le
creature di quei territori potessero appartenere a una delle tante razze
mostruose disseminate nelle lontananze recondite del globo. La dottrina
cristiana sembrava anzi prediligere tale interpretazione, poiché essa non
entrava in contrasto con i dogmi scritturali e ben si adattava all’ipotesi
segregazionista delle zone. Isidoro di Siviglia,
infatti, fin dalla tarda antichità aveva postulato l’esistenza della razza mostruosa degli Antipodi, creature con i piedi rivolti
all’indietro rispetto alle gambe, ciascuno con otto dita: tale motivo
evidentemente costruito sullo stesso modello di altre denominazioni di mostri
(come gli Sciapodi e i Cinocefali), mutuate semanticamente da
connotazioni di antinomia e di agglutinazione, divenne nel Medioevo un vero e
proprio tòpos - ancora rintracciabile nell’Imago Mundi di Pietro
d’Ailly e nelle Postille di Cristoforo Colombo (Christum ferens,
come egli stesso amava definirsi) – simile del resto a quello dei pigmei,
altra elusiva rappresentazione di creature difformi insediate oltre il circolo
dell’Equatore, sottolineato nella stessa epoca da Giraldo Cambrense
(1146-1223), attraverso le peripezie del prete Eliodoro nell’Itinerarium
Cambriae, e da Walter Map (1135-1210) nel suo De nugis
curialium. Si assiste insomma a una fusione degli Antipodi con i Pigmei (e con
i nani della tradizione nordica, spesso abitatori del sottosuolo). In entrambe
le narrazioni si entra in caverne oscure e recondite, ma dopo un lungo cammino
si viene ricompensati dal fuoriuscire in luoghi luminosi e verdeggianti, magici
e fatati. Lentamente si fa strada nuovamente l’idea dell’esplorazione del
mistero geografico come «parte fissa dello schema dell’imitatio Alexandri
e dell’ascesa al potere imperiale»10.
Alla vigilia dei grandi viaggi di navigazione e scoperta gli Antipodi appaiono
dunque, per lo più, come mostri che sembrano attendere soltanto di essere sottomessi
o come popoli idolatri ormai destinati ad una ineluttabile attività missionaria
che ha come fine la loro definitiva redenzione. Luigi Pulci nel Morgante,
a pochi anni dalla prima spedizione colombiana, ne dà una vivida descrizione
attraverso il dialogo tra il diavolo Astarotte e Rinaldo, profetizzandone il loro
destino.
E puossi andar giù nell’altro emisperio,
però che al centro ogni cosa reprime,
sì che la terra per divin misterio
sospesa sta fra le stelle sublime,
e laggiù son città, castella e imperio;
ma nol cognobbon quelle genti prime:
vedi che il sol di camminar s’affretta
dove io ti dico, ché laggiù s’aspetta.
E come un segno surge in orïente,
un altro cade con mirabile arte
come si vede qua nell’occidente,
però che il ciel giustamente comparte.
Antipodi appellata è quella gente;
adora il sole e Iuppiter e Marte,
e piante ed animal, come voi, hanno,
e spesso insieme gran battaglie fanno. -
Disse Rinaldo: - Poi che a questo siamo,
dimmi, Astaròt, un’altra cosa ancora:
se questi son della stirpe d’Adamo;
e, perché vane cose vi s’adora,
se si posson salvar qual noi possiamo. -
Disse Astarotte: - Non tentar più ora,
perché più oltre dichiarar non posso,
e par che tu domandi come uom grosso.
Dunque sarebbe partigiano stato
in questa parte il vostro Redentore,
che Adam per voi quassù fussi formato,
e crucifisso Lui per vostro amore?
Sappi ch’ognun per la croce è salvato;
forse che il ver, dopo pur lungo errore,
adorerete tutti di concordia,
e troverrete ognun misericordia11.
La rotta per gli antipodi appariva dunque ormai tracciata e non restava che portare a termine l’opera di
riunificazione universale.
Gli Antipodi redenti
L’unica nave superstite della spedizione magellanica reduce dall’epica circumnavigazione del globo – la Victoria,
con i suoi diciotto sopravvissuti, tra i quali il vicentino Antonio Pigafetta –
era approdata nel porto di Siviglia l’8 settembre 1522. L’eco dell’impresa,
come del resto era accaduto con i precedenti viaggi di scoperta, non fu certo pari
a quella che oggi ci si aspetterebbe. In Italia, per esempio, passarono quattordici
anni prima di vedere una redazione a stampa
della compilazione del suo celebre diarista (oltretutto tradotta da un’edizione
francese). Le scoperte di nuovi continenti, realizzate grazie ai grandi viaggi
di esplorazione marittima dei secoli XV e XVI, non modificarono radicalmente l’imago
mundi degli europei, nonostante lo sconvolgente allargamento delle mappe
del globo, e non produssero quel nuovo paradigma in grado di orientare le
rappresentazioni geografiche e mentali nel nuovo ordine cosmico, che qualche
tempo dopo sarebbe stato ancor più profondamente turbato dal penetrante e
indagatore sguardo del cannocchiale galileiano.
Lo shock culturale, certamente di vasta portata, rischiava di manifestarsi a pochi anni
di distanza da un altro passaggio rivoluzionario appena metabolizzato dalla
cultura europea.
Un nuovo mondo, quello classico, era stato da poco portato alla luce, navigando
all’indietro nel tempo: ora, navigando sul mare, ne era stato scoperto un altro
che sembrava minare le certezze apportate dal primo. Si trattava di fare una
scelta e, al momento, gli scienziati optarono per l’antichità, non si sentirono
in grado di rinunciare ai punti di ancoraggio che essa, da poco, aveva loro
fornito.12
La curiosità iniziale dei naturalisti e degli intellettuali fu certamente ben viva nel periodo a ridosso
delle scoperte, ma ben presto mutò registro, preferendo integrare le novità
geografiche all’interno di quelle rappresentazioni del mondo che millenarie
elucubrazioni avevano congetturato fino alle soglie della modernità. Gli
osservatori dei naturalia del nuovo mondo, sospinti in avanti da un’accelerazione
che rischiava di frantumare un’idealità cosmica assemblata con fatica e ricostruita
con tasselli spesso contradditorî, si sforzarono perciò di incasellarvi le
abituali conoscenze, rimodellando i confini del vecchio e spostando altrove la
frontiera eurocentrica, mantenendo fede e accoglienza perfino a quei mirabilia
che dopotutto dovevano trovarsi da qualche parte. Si trattò di una
tenace e forse inevitabile operazione di resistenza davanti a novità troppo
sconcertanti e che permise a molti di loro di ritirarsi «“nella penombra del
mondo intellettuale della loro tradizione”»13.
Un esempio significativo della persistenza di un tale immobile «orizzonte onirico»14 che caratterizzò a lungo la mentalità europea post-colombiana è rappresentato da un opuscolo stampato a
Bologna all’inizio del Seicento: si tratta del «felice, fortunato e stupendo
camino di Don Eliseo da Sarbagna Paleologo armeno»15 intrapreso per il
«ritrovamento delli tanto remoti Antipodi» la cui relazione venne pubblicata ad
istanza della «comica unita» Ortensia Biglia (a cui è attribuito anche il
madrigale che accompagna il racconto come un viatico) e dedicata «alli
studiosi, et elevati intelletti». Quasi certamente un divertissement,
considerando quelle note editoriali che fanno riferimento ai traduttori «Damian
Trifonio da Ragusi di Giovenazzo» (dall’armeno al greco) e all’«academico
stordito» Flaminio Ardente, «per due occhi orbo» (dal greco all’italiano).
Tuttavia la narrazione non mostra altri spunti parodistici e il resoconto viene
fornito con la massima serietà. Ma ciò che conta davvero è che la relazione fu
riutilizzata quasi sessant’anni più tardi da un altro stampatore bolognese,16 espungendo i riferimenti a traduttori e committenti, eliminando dediche e madrigali e trasformando, de
facto, l’opera in una cronaca di viaggio. Anzi, il tipografo integrò nel
titolo un elemento del racconto, avvisando il lettore che le meravigliose
scoperte erano avvenute «mercè d’una taula di bronzo fatta dal grande
Alessandro che primo a tant’impresa s’accinse», dove il riferimento pare volto
a far leva sulla diffusa conoscenza popolare del leggendario Romanzo di
Alessandro, con l’evidente intento di accrescere l’autorevolezza della
notizia: pochi sapienti tocchi, insomma, per trasformare un viaggio fantastico
in realtà.
L’impresa del «paleologo» armeno risulta un singolare connubio di temi vecchi e nuovi nei
quali la geografia che vi viene tratteggiata rappresenta una sintesi delle
antiche concezioni cosmologiche mescolate a riferimenti relativi ai più recenti
viaggi di scoperta. Le peripezie invece appartengono a pieno titolo all’immaginario
dei favolosi viaggi nelle riarse terre africane o nelle remote lontananze d’Oriente
di Jean de Mandeville, mantenendo ben vivo quel gusto per il ‘meraviglioso’
tipico dell’età medievale.
Partiti alla volta di «Tristam de Cugna» per raggiungere «la terra di Vista, incognita, o
del fuoco» don Eliseo e i suoi compagni dovettero sopportare «infiniti
travagli» a causa di «fiere», «monti», «paludi», «laghi», «mostri», «perduto
camino», «precipizii», perdendo due membri della spedizione «uno de quali fu
dal terribilissimo dragone divorato co’l camello, l’altro per l’altezza d’un
monte precipitato» prima di giungere «ad una amplissima pianura» in cui si
scorgevano «le vestigia d’alcuni alberghi». Aggirandosi tra «le ruine delle meravigliose
fabriche»17 venne
ritrovata un’imponente tavola di bronzo recante l’iscrizione «in lettere greche
che in latino così si direbbero: Gloriae Mag. Alex. Mac. [...] qui primis ad
antipod. descendit». Poiché la tavola forniva anche l’indicazione della via da
seguire (un lunghissimo cunicolo sotterraneo che si dipartiva da una grande
spelonca) con tanto illustre viatico la spedizione riuscì infine, dopo molti
giorni di penoso strisciare nel ventre della terra, a fuoriuscire sotto il
cielo azzurro e diafano del paese degli Antipodi18.
Le meravigliose contrade sembravano calate nel paesaggio delle isole dei beati care all’immaginario degli antichi greci e dei latini, oppure
richiamavano i motivi del Paradiso Terrestre che
il Medioevo cristiano (Dante fra tutti) aveva spesso collocato agli antipodi di
Gerusalemme: clima di «perfezzione d’aere» e di «continua primavera», niente
piogge o vento sotto un cielo luminoso «copioso di ruggiada», frutti lucidi e
scintillanti «benché di spezie differente dalli nostri» (tra i quali spiccavano
per evidenza alcuni che tenevano «in sé scolpita l’umana figura» e certe erbe
istoriate con scritte che ricordavano «gli ebrei segni»; spighe enormi con
«mille chicchi» imbiondivano i campi sui quali non era necessario affaticarsi con
l’aratro:
La terra poi qui non si coltiva, ma da per sé, cadendo
le prima semenze apportano le seconde non altrimenti […], né gli è d’uopo arar
la terra perché da continui terremoti, benché non perigliosi, la terra viene
per tutto suffurrarsi e sembra che il vento lor giovi per aratore19.
Gli animali, docili e mansueti, «vaghi e riguardevoli», erano privi di pelo e mostravano «di stellata pelle il
petto e ‘l tergo»20; mitezza
che condividevano del resto con i signori di quell’eden, la razza degli Antipodi,
la cui mostruosità era delicata e gentile (le caratteristiche ‘morfologiche’
differivano non di molto da quelle europee, fatte salve però alcune
significative differenze: la bassa statura, «i piedi [...] tondi senza fessura
apparente», i capelli lanosi ma di color oro - d’argento per i vecchi - gli
occhi rossi, il colore della pelle «come il nostro formento ma più chiaro»21.
Gli Antipodi vivevano in serenità e semplicità, mangiando soltanto pesce cotto al sole,
vestendosi con «pelle di pesci» e costruendo perfino le loro abitazioni con
ossa di pesci ricoperte da un impasto indecifrabile. La loro religione era
semplice, consistendo nel venerare «alcune statue d’oro con l’iscrizzione
Alexander Macedo»22 e la
loro indole era così mite che Don Eliseo, dopo essersi fermato un anno in
quelle remote contrade «per spiar gl’intimi sensi di quelli», si ripromise di
far ritorno con rinforzi «vistoli al tutto da potersi soggiocare [...] a Dio
piacendo»23.
Questa relazione di una spedizione immaginaria (non ritenuta però tale ben oltre la metà del Seicento)
si attiene agli stereotipi del viaggio medievale pur fondendoli in una
geografia nuova (Tristan da Cunha e Terra del Fuoco): peripezie, tribolazioni e
pericoli, usi e costumi di popoli remoti e all’occasione di razze mostruose,
meraviglie, stravaganze e naturalmente mostri, poiché «chi non ha visto dei
mostri, evidentemente non ha viaggiato»24 e
se un mostro non viene trovato non significa che non esista, ma semplicemente
«che abita più lontano»25. Il
resoconto mostra evidenti segni della tradizione - sopra tutti il leggendario
del Romanzo di Alessandro, comprensivo del diario di bordo del suo
ammiraglio Nearco che per primo aveva parlato del popolo degli ittiofagi26 - ed echi di fonti classiche che rimandano indietro nel tempo fino a Ctesia di Cnido e a
Megastene. Vegetali mostruosi, parenti della mandragora o dell’albero wak-wak,
insieme a draghi e mostri generici sono dati in un certo senso per scontati. Si
ritrovano i temi dei collegamenti sotterranei all’alter orbis e della
purezza incontaminata del Paradiso Terrestre, si respira l’aria profumata delle
Isole Beate e si ammirano le messi biondeggianti intraviste da Gervasio di
Tilbury, ci si sofferma sulle ingentilite forme mostruose dei piedi degli
Antipodi e sulla loro evidente parentela con i Pigmei di pliniana memoria: una
certificazione della persistenza dell’eredità classica e medievale, piuttosto
che la scoperta geografica di un mondo nuovo, una continuità culturale con il
passato perfino nella manifesta volontà imperiale e di conquista che pur
caratterizzò con tanta forza la prima modernità
Del resto anche Antonio Pigafetta, costeggiando le propaggini estreme del Sudamerica, si era detto certo che lungo quelle coste
vivesse un popolo molto simile ai Panozi
(«de dietro de questa isola stanno uomini che hanno tanto grandi li picchetti
de le orecchie, che portano li bracci ficcati in loro»), riferendo anche come
assai degna di fede l’opinione del suo nocchiero:
ne disse il nostro piloto vecchio de Maluco, come appresso quivi era una isola,
chiamata Arucheto, li uomini e femmine de la quale non sono maggiori d’un
cubito e hanno le orecchie grandi come loro: de una fanno lo suo letto e de l’altra
se copreno, vanno tosi e tutti nudi; corrono molto, hanno la voce sottile; abitano
in cave sotto terra e mangiano pesce e una cosa che nasce tra l’albero e la
scorza, che è bianca e rotonda come coriandoli de confetto, detta ambulon; ma
per le gran correnti de acqua e molti bassi, non li andassemo27.
Pochi anni più tardi il suo concittadino e parente Filippo Pigafetta raccolse dal frate portoghese Odoardo Lopez gli
elementi per la Relazione del Reame di Congo28, nella quale veniva
descritto l’incontro fra i membri della spedizione e il Prete Gianni;
Amerigo Vespucci29 per
contro, navigando per «incognitas orbis partes», aveva scoperto l’isola dei
giganti e i suoi abitanti («procerae magnitudinis homines»30). L’«orizzonte onirico»
sembrava insomma mantenersi stabile e immutabile (del resto Jean Delumeau
ritiene che «il rimpianto dell’aetas aurea» costituisca un importante
tema del Rinascimento «epoca troppo facilmente identificata con un tempo di
speranza e di gioia»31),
appagando quel desiderio fisiologico di meraviglie che Torquato Tasso trovava
così naturale.
Nondimeno
noi ricerchiamo figure riguardevoli e forme nuove e pellegrine, perché le
communi e le domestiche e quelle che assai spesso ci si parano davanti non
muovono di sé maraviglia ed espettazione di saper più oltre. Penetraremo dunque
ne le profonde selve di Germania a ricercar de l’alce e del bonaso e del
bisonte, o pur ne le solitudini d’Africa e d’Etiopia la manticora e la
catoblepa e l’altre sì fatte?32
La nuova stagione degli antipodi dà l’impressione, infatti, di voler indugiare nel sogno vaporoso della nostalgia e vagheggiare
nel rimpianto di un meraviglioso di cui si stavano ormai perdendo le coordinate
essenziali, piuttosto che celebrare i trionfi di un discobrimiento che,
nella sua prosaicità, avrebbe condotto prima o poi a rendersi conto che la
stagione dei veri viaggi era purtoppo ormai terminata33.
Note
1 - Cfr. Gabriella Moretti, Gli
Antipodi. Avventure letterarie di un mito scientifico, Parma, Pratiche, 1994, p. 24.
2 - Ivi, pp. 34-35.
3 - Ivi, p. 66.
4 - Marcus Manilius, Astronomica,
1, 236-246, 377-381. Cfr. Moretti, Gli Antipodi, cit., pp. 71-72.
5 - Manilius, Astronomica, cit., 4,
170-171.
6 - Sidonius
Apollinaris Episcopus, Carmina, 9, 16-21, in Migne, Patrologia Latina,
vol. 58, col. 695B: «Non nos currimus aggerem vetustum, / nec quidquam
invenies, ubi priorum / antiquas terat orbitas Thalia. / Non hic antipodas,
salumque rubrum, / non hic Memnonius canemus Indos, / aurorae face civica
perustos». Cfr. Moretti, Gli Antipodi, cit., p. 76.
7 - Francesco
Petrarca, Canzoniere, 50, 1-3; 22, 13-14.
8 - Aurelius
Augustinus, De civitate Dei, trad. it., La città di Dio, 16, 9.
9 - Gervasio di Tilbury, Otia imperialia, 3, 45 (De antipodibus et eorum
terra). Cfr. Moretti, Gli Antipodi, cit., pp. 92-93.
10 - Moretti, Gli Antipodi, cit., pp. 92-93.
11 - Luigi Pulci, Morgante, cantare XXV,
230-233. Ed. elettronica: http://www.intratext.com/IXT/ITA1333/_PP.HTM,
29 agosto 2008.
12 - Giuseppe Olmi, L’inventario del mondo.
Catalogazione della natura e luoghi del sapere nella prima età moderna,
Bologna, Il Mulino, 1992, p. 234.
13 - Ivi, p. 232. La citazione riportata da Giuseppe
Olmi è tratta da John Huxtable Elliott, Il vecchio e il nuovo mondo. 1492-1650, Milano, Il Saggiatore, 1985, p. 26.
14 - La celebre espressione di Jacques Le Goff illustra
il processo mentale medievale che sembra proseguire anche nella prima
modernità: L’Occidente medievale e l’Oceano Indiano: un orizzonte onirico,
in Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi, 1977, pp. 257-277.
15 - Avviso o lettera curiosissima
del nuovo felice fortunato e stupendo
camino, di Don Eliseo da Sarbagna Paleologo
Armeno, verso la Terra di Vista, incognita,
o del fuoco, così chiamata dalli geometri,
et antichi marinari; con il ritrovamento delli
tanto remoti Antipodi, con la descrizzione
di quei fortunatissimi paesi, leggi, culto,
vitto, vestito, figura, longhezza di giorni,
di stagioni, et altre cose curiosissime,
tradotta d’armeno in greco, per Damian Trifonio da Ragusi di Giovenazzo. E
dalla lingua greca in italiana da Flaminio Ardente, per due occhi orbo, Acad.
Stordito. Ad instanza della signora Elena Biglia da Gorizia, detta Ortensia,
comica unita. In Viterbo et poi in Bologna, per Bartolomeo Cocchi, 1609, cc. 8
n.n.
16 - Avviso o lettera curiosissima
del nuovo felice fortunato e stupendo
camino, di Don Eliseo da Sarbanga [sic]
Paleologo Armeno. Verso la Terra di Vista,
incognita, o del fuoco, così chiamata
dalli geometri, et antichi marinari. Con
il ritrovamento delli tanto remoti Antipodi,
con la descrizzione di quei fortunatissimi
paesi, leggi, culto, vitto, vestito, figura,
longhezza di giorni, di stagioni, et altre
cose curiosissime. Mercé d’una Taula di
bronzo fatta dal grande Alessandro, che
primo a tant’impresa s’accinse. Con loro
secreti chimici medicinali et altre maraviglie,
in Bologna, per il Sarti, 1667. Le citazioni che seguono appartengono a questa
edizione.
17 - Ivi. Le citazioni finora utilizzate
sono in c. 2 v.
18 - Ivi, c. 3 r.
19 - Ivi, c. 4. v.
20 - Ibid.
21 - Ivi, c. 6 v.
22 - Ibid.
23 - Ibid.
24 - Claude Kappler (1980), Demoni mostri e
meraviglie alla fine del medioevo, Firenze,
Sansoni, 1983, p. 105.
25 - Franco Cardini, L’invenzione dell’Occidente,
Chieti, Solfanelli, 1995, p. 91.
26 - Anche nel Liber monstrorum (II, XXVI) si fa riferimento ad un popolo
«vicino a quello degli Indi» che confeziona vestiti con pelli di balena. Cfr.
Franco Porsia (a cura di), Liber monstrorum, Bari, Dedalo, 1976.
27 - Antonio
Pigafetta, Relazione del primo viaggio attorno al mondo (1524). Ed. elettronica Progetto Manuzio: http://tinyurl.com/3rqm22a, 29 agosto 2008, p. 48. La citazione
precedente è a p. 15. (Conforme a Relazione
del primo viaggio intorno al mondo, a cura di Camillo Manfroni, Milano,
Istituto editoriale italiano, 1956).
28 - Filippo Pigafetta, Relatione del Reame di Congo
et delle circonvicine contrade. Tratta dalli scritti et ragionamenti di Odoardo
Lopez portoghese. Per Filippo Pigafetta. Con disegni vari di geografia, di
piante, d’habiti, d’animali, et altro. Al molto illustre e reverendissimo
Monsignore Antonio Migliore, vescovo di S. Marco et Commendatore di S. Spirito,
in Roma, appresso Bartolomeo Grassi, s.d. [ma 1591]. L’esploratore incontra
anche certi animali dai contorni favolosi che «grandi come un montone, a guisa
di draghi, hanno le ali e la coda, e il muso lungo con diversi ordini di
denti...; li negri gentili sogliono adorarli come dei et hora se ne veggono
alcuni serbati da loro in maraviglie» (p. 33).
29 - Probabilmente tra le fonti del viaggio fantastico
di Don Eliseo da Sarbagna non doveva essere estranea una lettera di Vespucci -
nella quale l’esplorazione degli «antipoti» si rivela su un piano di consapevolezza della continuità con un mondo immaginato fin dai tempi antichi –
che, variamente rimaneggiata, fu pubblicata a più riprese tra il 1502 e il 1504
in diversi paesi europei. La citazione e il riferimento sono tratti da Massimo
Donattini, Dal Nuovo Mondo all’America. Scoperte geografiche e colonialismo
(secoli XV-XVI), Roma, Carocci, 2004, p. 57.
30 - Tomaso Garzoni da Bagnacavallo, Il serraglio de
gli stupori del mondo. Diviso in diece appartamenti, secondo i vari, &
ammirabili oggetti[...], in Venezia,1613, appresso Ambrosio et Bartolomeo
Dei, fratelli. Alla libraria dal San Marco. In questa sede si utilizza l’edizione
modernizzata: Il serraglio de gli stupori del mondo. Con le aggiunte del
fratello Bartolomeo Garzoni, introduzione di Paolo Cherchi, Russi, Vaca,
2004. Le citazioni sono a p. 17.
31 - Jean Delumeau (1992), Storia del Paradiso. Il
giardino delle delizie, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 157; in particolare il
capitolo Nostalgia (pp. 155-183).
32 - Torquato Tasso, dal dialogo Il Conte (overo de l’imprese),
140. Le parole sono del «Forestiero Napolitano». L’edizione di riferimento è
quella a cura di Bruno Basile, Roma, Salerno, 1993, p. 150.
33 - Sul tema della «fine dei viaggi» non si può fare a meno di ricordare il celebre
«odio i viaggi e gli esploratori» con il quale Claude Lévi-Strauss apostrofa la
stagione contemporanea del turismo di massa (Tristes Tropiques, Paris,
Plon, 1955; trad. it. Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore, 2004, p.
13).
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