Jon Krakauer, Aria sottile,

(Into Thin Air, 1997), Milano, Corbaccio, 1998.


Non siamo in presenza del classico testo di montagna, scritto dal solito alpinista che non sa scrivere. L'autore, che pure ha un passato da buon alpinista, da tempo è giornalista e scrittore; il suo libro risulta piacevole alla lettura, chiaro, essenziale, ma non è la semplice cronaca di una spedizione in alta quota, bensì un viaggio all'interno delle enormi contraddizioni della nostra contemporaneità. La scrittura è letteraria, pur del particolare tipo che si addice a quella che in fondo è una cronaca, benché sia probabilmente molto di più, una tragedia moderna, proprio nel senso teatrale del termine (la struttura in quadri topologici in cui è articolato il racconto e le regole quasi aristoteliche di unità di tempo, luogo e azione che contraddistinguono lo spazio dell'azione, ne rappresentano spie piuttosto evidenti).


La vicenda

Nel maggio 1996 l'autore, in qualità di inviato della rivista "Outside", prende parte ad una spedizione commerciale della Adventure Consultants, organizzata dal celebre alpinista e guida neozelandese Rob Hall, che ha come meta la vetta del monte Everest.
Ormai da diversi anni la regione dell'Himalaya viene presa d'assalto da migliaia di persone. Molte di queste non sono alpinisti, ma clienti con modeste capacità alpinistiche, disposti a spendere 65.000 dollari per la quota di partecipazione, oltre all'attrezzatura personale e al viaggio dalle proprie città fino al campo base.
Oggi l'Everest, soprattutto la via normale (cresta sud-est), non viene più considerato un obiettivo tecnicamente difficile. Certe guide alpine, nella loro pubblicità, asseriscono che saranno in grado di portare in cima 'chiunque', purché assistiti dal bel tempo. Il problema principale rimane l'adattamento alla quota, specialmente nella 'zona della morte' oltre i 7600 metri: tuttavia una cospicua dotazione di bombole di ossigeno, trasportate nei diversi campi dagli sherpa, e una buona scorta di dexamethasone garantiscono buone possibilità anche per i più impreparati.
Eppure chi conosce la montagna, anche solo in generale, sa che sopra i 2000 metri il maltempo può trasformare una passeggiata in una brutta gatta da pelare.  Nel mondo dell'alpinismo circola una battuta: tutti sono capaci di salire sulla cima dell'Everest; il problema è ridiscenderne vivi.
Infatti questo libro è la cronaca, esatta e impeccabile (tranne alcune riserve che esporrò più avanti), meticolosa e documentata di una tragedia. Nel giro di una giornata perdono la vita dodici persone tra guide e clienti e diversi altri si salvano al prezzo di dover convivere tutta la vita con angosce insopportabili, oltre che con i danni fisici riportati a seguito dei congelamenti, degli edemi polmonari e cerebrali: amputazioni, danni cerebrali e vascolari permanenti. 
Insieme alla spedizione della Adventure Consultants si muovono pressoché in contemporanea altre 14 spedizioni, commerciali e non. L'affollamento che si raggiunge in certi passaggi obbligati si presenta come ridicolo e insopportabile per chi ha ancora un'immagine dell'Himalaya composta con gli stilemi della natura incontaminata. Questo è a mio parere il principale pregio del libro: la capacità di porre domande inespresse, non tanto sul significato del gesto alpinistico (tipica domanda da anni cinquanta e sessanta), non soltanto l'eterno interrogativo che sfida gli uomini a rispondersi sul perché, per l'individuo, possa divenire così importante esplorare i propri limiti, ma soprattutto interrogarsi sul come, moderni e smaliziati cittadini del mondo, stiamo cambiando nella nostra relazione con gli altri, anzi con l'altro (che tale diventa il compagno di spedizione in frangenti drammatici) e sul che cosa stiamo producendo in questo cambiamento.

È soltanto a titolo di esempio, per corroborare questo approccio di lettura, che vale la pena ricordare certi tratti comportamentali di alcuni protagonisti della vicenda:

  • Scott Fischer, la guida americana della spedizione Mountain Madness, che con atteggiamento hippyesco lascia che i suoi clienti si muovano liberamente tra i campi alti prima dell'attacco alla vetta; spera di superare in celebrità e in cachet il suo collega Rob Hall; la sua condizione fisica è sicuramente inadeguata al momento dell'attacco finale alla vetta, ma non potendo ammetterlo davanti ai clienti e probabilmente anche davanti a se stesso, continua a salire e paga con la vita;

  • il capo della spedizione sudafricana Ian Woodall che rifiuta di collaborare con gli altri gruppi; nega persino l'uso della radio per la gestione dell'emergenza al campo quattro in piena apocalisse (tuttavia aveva raccolto la sponsorizzazione del Sunday Times di Johannesburg facendo sfoggio di solidarietà interetnica, ottenendo la benedizione di Mandela, col mistico proposito di portare in cima all'Everest il primo africano di colore, salvo non iscriverlo neppure nella lista consegnata alle autorità nepalesi);

  • l'agghiacciante spedizione giapponese che converge in vetta dalla cresta nord-est e che abbandona per due volte al proprio destino tre membri della spedizione indiana incontrata sulla stessa via, senza neppure un gesto di soccorso, un sorso d'acqua o una boccata dalle bombole, con la motivazione poi dichiarata "non li conoscevamo. No, non abbiamo offerto acqua e non abbiamo parlato con loro...al di sopra degli ottomila metri non ci si può permettere il lusso della moralità";

  • la macchiettistica e irritante miliardaria americana Sandy Pittman, ben nota nel jet set, che viene issata di peso sulla cima dalla sherpa Lopsang Jangbu, dopo essere stata trainata come un asino dal campo quattro, ridicola e terribile col suo carico di delicatessen alimentari al campo base, il suo telefono satellitare di dodici chili portato fino in vetta sempre da uno sherpa per poter dare l'annuncio trionfante al mondo attraverso Internet. Per Scott Fischer la Pittman è un preziosissimo veicolo pubblicitario: "Se riesco a portare sulla vetta Pittman scommetto che la inviteranno come ospite a tutti gli spettacoli televisivi. Tu pensi che farà entrare anche me nel suo alone di fama e di celebrità?" Anche la Pittman pagherà un prezzo molto alto: al ritorno in patria scoprirà che i media, scandalizzatissimi per l'eco della tragedia (e dire che i media vivono delle tragedie altrui), l'attendono per linciarla; suo figlio soffrirà la persecuzione dei compagni dell'esclusiva scuola che frequenta. Quando si dice la cattiva pubblicità;

  • Rob Hall, grande alpinista, che condanna se stesso e il proprio cliente Doug Hansen, ritardando la discesa al solo scopo di permettere al cliente sfinito di raggiungere comunque la vetta. Hansen aveva già partecipato ad una precedente spedizione di Hall e aveva mancato l'obiettivo per pochi metri. Hall aveva convinto Doug Hansen a ritentare in quel maggio 1996. Dovette sembrargli moralmente sconveniente non dare una chance disperata al cliente attardato oltre ogni ragionevole considerazione (normalmente Hall considerava improrogabile l'orario di discesa verso il campo quattro). Dopotutto, come ha dichiarato il veterano delle guide americane Peter Lev  "noi crediamo che la gente ci paghi perché prendiamo buone decisioni, ma in realtà ci paga perché li portiamo sulla vetta";

  • Jon Krakauer, l'autore del libro, che si sforza di dare alla vicenda un chiaro e completo resoconto, tornerà negli Stati Uniti afflitto dal peso di una colpa che si attribuisce, senza riuscire a spiegarla fino in fondo. Pur considerandosi responsabile della morte dell'altra guida neozelandese, Andy Harris, non riesce a spiegare in maniera convincente in che cosa consista la sua responsabilità. Il dubbio prepotente è che davanti alle proprie responsabilità la coscienza e il mestiere l'abbiano reso reticente e l'abbiano indotto a schermare 'professionalmente' il ricordo. Sostiene di avere scritto questo libro per sgravarsi di un peso che lo schiacciava: resta l'impressione che il libro l'avrebbe scritto comunque, visto che le tragedie, comunque, rendono e che l'editore, come uno psicanalista, gli ha certamente proposto un transfert accettabile.

  • Vale la pena ricordare anche il messaggio diffuso su Internet, il 14 ottobre 1996 nell'ambito di un forum sull'Everest organizzato in Sudafrica, che Krakauer ha posto in epigrafe al suo libro, direi molto opportunamente:

    Sono l'orfano di uno sherpa. Mio padre è rimasto ucciso sulla seraccata del Khumbu [tra il campo base e il campo uno], mentre faceva da portatore per una spedizione verso la fine degli anni Sessanta. Mia madre è morta poco più a valle di Pheriche, quando il suo cuore ha ceduto sotto il peso del carico che stava trasportando per un'altra spedizione, nel 1970. Tre dei miei fratelli sono morti per vari motivi, mia sorella e io siamo stati inviati presso famiglie adottive in Europa e negli Stati Uniti. Non sono mai tornato nel mio paese perché sento che è maledetto. I miei avi giunsero nella regione del Solo-Khumbu per sfuggire alle persecuzioni nelle pianure, e là trovarono asilo all'ombra di 'Sagarmathaji', la 'dea madre della terra' [la divinità dell'Everest]. In cambio ci si aspettava da loro che proteggessero dagli estranei il santuario della dea.
    Invece il mio popolo si è rivolto nella direzione opposta, aiutando gli estranei a insinuarsi in quel santuario e a violare ogni parte del suo corpo montandovi sopra, gettando grida stridule di trionfo, insozzando e profanando il suo seno. Alcuni di essi sono scampati per il rotto della cuffia, oppure hanno offerto altre vite in vece loro... Quindi credo che anche gli sherpa siano da biasimare per la tragedia del 1996 su 'Sagarmatha' [l'Everest]. Non rimpiango di non essere tornato, perché so che la popolazione della zona è condannata, e lo sono anche quegli stranieri ricchi e arroganti che credono di aver conquistato il mondo. Ricordatevi del Titanic. Anche l'Inaffondabile affondò, e cosa sono degli stupidi mortali come Weathers, Pittman, Fischer, Lopsang, Tenzing, Messner, Bonington, al cospetto della 'Dea Madre'?
    Pertanto ho giurato di non tornare mai in patria, per non prendere parte a quel sacrilegio.

    Concludo ricordando un particolare che mi pare emblematico delle trasformazioni culturali prodotte dall'atteggiamento dell'alpinismo moderno (che secondo me altro non è che una grande metafora della civilizzazione occidentale) nell'impatto con un altro ambiente legato ad un altra cultura: gli sherpa ormai, anche quando parlano tra loro e nella loro lingua, usano l'oronimo Everest anziché Sagarmatha.

    (recensione di Alberto Natale)

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