Non siamo in presenza del classico
testo di montagna, scritto dal solito alpinista che
non sa scrivere. L'autore, che pure ha un passato da
buon alpinista, da tempo è giornalista e scrittore; il
suo libro risulta piacevole alla lettura, chiaro,
essenziale, ma non è la semplice cronaca di una
spedizione in alta quota, bensì un viaggio all'interno
delle enormi contraddizioni della nostra
contemporaneità . La scrittura è letteraria, pur del
particolare tipo che si addice a quella che in fondo è
una cronaca, benché sia probabilmente molto di più,
una tragedia moderna, proprio nel senso teatrale del
termine (la struttura in quadri topologici in cui è
articolato il racconto e le regole quasi aristoteliche
di unità di tempo, luogo e azione che
contraddistinguono lo spazio dell'azione, ne
rappresentano spie piuttosto evidenti).
La vicenda
Nel maggio 1996 l'autore, in qualità di inviato della
rivista "Outside", prende parte ad una spedizione
commerciale della Adventure Consultants,
organizzata dal celebre alpinista e guida neozelandese
Rob Hall, che ha come meta la vetta del monte Everest.
Ormai da diversi anni la regione dell'Himalaya viene
presa d'assalto da migliaia di persone. Molte di
queste non sono alpinisti, ma clienti con modeste
capacità alpinistiche, disposti a spendere 65.000
dollari per la quota di partecipazione, oltre
all'attrezzatura personale e al viaggio dalle proprie
città fino al campo base.
Oggi l'Everest, soprattutto la via normale (cresta
sud-est), non viene più considerato un obiettivo
tecnicamente difficile. Certe guide alpine, nella loro
pubblicità , asseriscono che saranno in grado di
portare in cima 'chiunque', purché assistiti dal bel
tempo. Il problema principale rimane l'adattamento
alla quota, specialmente nella 'zona della morte'
oltre i 7600 metri: tuttavia una cospicua dotazione di
bombole di ossigeno, trasportate nei diversi campi
dagli sherpa, e una buona scorta di dexamethasone
garantiscono buone possibilità anche per i più
impreparati.
Eppure chi conosce la montagna, anche solo in
generale, sa che sopra i 2000 metri il maltempo può
trasformare una passeggiata in una brutta gatta da
pelare. Nel mondo dell'alpinismo circola una
battuta: tutti sono capaci di salire sulla cima
dell'Everest; il problema è ridiscenderne vivi.
Infatti questo libro è la cronaca, esatta e
impeccabile (tranne alcune riserve che esporrò più
avanti), meticolosa e documentata di una tragedia. Nel
giro di una giornata perdono la vita dodici persone
tra guide e clienti e diversi altri si salvano al
prezzo di dover convivere tutta la vita con angosce
insopportabili, oltre che con i danni fisici riportati
a seguito dei congelamenti, degli edemi polmonari e
cerebrali: amputazioni, danni cerebrali e vascolari
permanenti.
Insieme alla spedizione della Adventure
Consultants si muovono pressoché in
contemporanea altre 14 spedizioni, commerciali e non.
L'affollamento che si raggiunge in certi passaggi
obbligati si presenta come ridicolo e insopportabile
per chi ha ancora un'immagine dell'Himalaya composta
con gli stilemi della natura incontaminata. Questo è a
mio parere il principale pregio del libro: la capacitÃ
di porre domande inespresse, non tanto sul significato
del gesto alpinistico (tipica domanda da anni
cinquanta e sessanta), non soltanto l'eterno
interrogativo che sfida gli uomini a rispondersi sul
perché, per l'individuo, possa divenire così
importante esplorare i propri limiti, ma soprattutto
interrogarsi sul come, moderni e smaliziati
cittadini del mondo, stiamo cambiando nella nostra
relazione con gli altri, anzi con l'altro (che
tale diventa il compagno di spedizione in frangenti
drammatici) e sul che cosa stiamo producendo
in questo cambiamento.
È soltanto a titolo di esempio, per corroborare
questo approccio di lettura, che vale la pena
ricordare certi tratti comportamentali di alcuni
protagonisti della vicenda:
Scott Fischer, la guida americana della spedizione
Mountain Madness, che con atteggiamento
hippyesco lascia che i suoi clienti si muovano
liberamente tra i campi alti prima dell'attacco alla
vetta; spera di superare in celebrità e in cachet il
suo collega Rob Hall; la sua condizione fisica è
sicuramente inadeguata al momento dell'attacco finale
alla vetta, ma non potendo ammetterlo davanti ai
clienti e probabilmente anche davanti a se stesso,
continua a salire e paga con la vita;
il capo della spedizione sudafricana Ian Woodall
che rifiuta di collaborare con gli altri gruppi; nega
persino l'uso della radio per la gestione
dell'emergenza al campo quattro in piena apocalisse
(tuttavia aveva raccolto la sponsorizzazione del
Sunday Times di Johannesburg facendo sfoggio di
solidarietà interetnica, ottenendo la benedizione di
Mandela, col mistico proposito di portare in cima
all'Everest il primo africano di colore, salvo non
iscriverlo neppure nella lista consegnata alle
autorità nepalesi);
l'agghiacciante spedizione giapponese che converge
in vetta dalla cresta nord-est e che abbandona per due
volte al proprio destino tre membri della spedizione
indiana incontrata sulla stessa via, senza neppure un
gesto di soccorso, un sorso d'acqua o una boccata
dalle bombole, con la motivazione poi dichiarata "non
li conoscevamo. No, non abbiamo offerto acqua e non
abbiamo parlato con loro...al di sopra degli ottomila
metri non ci si può permettere il lusso della
moralità ";
la macchiettistica e irritante miliardaria
americana Sandy Pittman, ben nota nel jet set, che
viene issata di peso sulla cima dalla sherpa Lopsang
Jangbu, dopo essere stata trainata come un asino dal
campo quattro, ridicola e terribile col suo carico di
delicatessen alimentari al campo base, il suo
telefono satellitare di dodici chili portato fino in
vetta sempre da uno sherpa per poter dare l'annuncio
trionfante al mondo attraverso Internet. Per Scott
Fischer la Pittman è un preziosissimo veicolo
pubblicitario: "Se riesco a portare sulla vetta
Pittman scommetto che la inviteranno come ospite a
tutti gli spettacoli televisivi. Tu pensi che farÃ
entrare anche me nel suo alone di fama e di
celebrità ?" Anche la Pittman pagherà un prezzo molto
alto: al ritorno in patria scoprirà che i media,
scandalizzatissimi per l'eco della tragedia (e dire
che i media vivono delle tragedie altrui), l'attendono
per linciarla; suo figlio soffrirà la persecuzione dei
compagni dell'esclusiva scuola che frequenta. Quando
si dice la cattiva pubblicità ;
Rob Hall, grande alpinista, che condanna se stesso
e il proprio cliente Doug Hansen, ritardando la
discesa al solo scopo di permettere al cliente sfinito
di raggiungere comunque la vetta. Hansen aveva giÃ
partecipato ad una precedente spedizione di Hall e
aveva mancato l'obiettivo per pochi metri. Hall aveva
convinto Doug Hansen a ritentare in quel maggio 1996.
Dovette sembrargli moralmente sconveniente non dare
una chance disperata al cliente attardato oltre ogni
ragionevole considerazione (normalmente Hall
considerava improrogabile l'orario di discesa verso il
campo quattro). Dopotutto, come ha dichiarato il
veterano delle guide americane Peter Lev "noi
crediamo che la gente ci paghi perché prendiamo buone
decisioni, ma in realtà ci paga perché li portiamo
sulla vetta";
Jon Krakauer, l'autore del libro, che si sforza di
dare alla vicenda un chiaro e completo resoconto,
tornerà negli Stati Uniti afflitto dal peso di una
colpa che si attribuisce, senza riuscire a spiegarla
fino in fondo. Pur considerandosi responsabile della
morte dell'altra guida neozelandese, Andy Harris, non
riesce a spiegare in maniera convincente in che cosa
consista la sua responsabilità . Il dubbio prepotente è
che davanti alle proprie responsabilità la coscienza e
il mestiere l'abbiano reso reticente e l'abbiano
indotto a schermare 'professionalmente' il ricordo.
Sostiene di avere scritto questo libro per sgravarsi
di un peso che lo schiacciava: resta l'impressione che
il libro l'avrebbe scritto comunque, visto che le
tragedie, comunque, rendono e che l'editore, come uno
psicanalista, gli ha certamente proposto un transfert
accettabile.
Vale la pena ricordare anche il messaggio diffuso su
Internet, il 14 ottobre 1996 nell'ambito di un forum
sull'Everest organizzato in Sudafrica, che Krakauer ha
posto in epigrafe al suo libro, direi molto
opportunamente:
Sono l'orfano di uno sherpa. Mio
padre è rimasto ucciso sulla seraccata del Khumbu [tra
il campo base e il campo uno], mentre faceva da
portatore per una spedizione verso la fine degli anni
Sessanta. Mia madre è morta poco più a valle di
Pheriche, quando il suo cuore ha ceduto sotto il peso
del carico che stava trasportando per un'altra
spedizione, nel 1970. Tre dei miei fratelli sono morti
per vari motivi, mia sorella e io siamo stati inviati
presso famiglie adottive in Europa e negli Stati
Uniti. Non sono mai tornato nel mio paese perché sento
che è maledetto. I miei avi giunsero nella regione del
Solo-Khumbu per sfuggire alle persecuzioni nelle
pianure, e là trovarono asilo all'ombra di
'Sagarmathaji', la 'dea madre della terra' [la
divinità dell'Everest]. In cambio ci si aspettava da
loro che proteggessero dagli estranei il santuario
della dea.
Invece il mio popolo si è rivolto nella direzione
opposta, aiutando gli estranei a insinuarsi in quel
santuario e a violare ogni parte del suo corpo
montandovi sopra, gettando grida stridule di trionfo,
insozzando e profanando il suo seno. Alcuni di essi
sono scampati per il rotto della cuffia, oppure hanno
offerto altre vite in vece loro... Quindi credo che
anche gli sherpa siano da biasimare per la tragedia
del 1996 su 'Sagarmatha' [l'Everest]. Non rimpiango di
non essere tornato, perché so che la popolazione della
zona è condannata, e lo sono anche quegli stranieri
ricchi e arroganti che credono di aver conquistato il
mondo. Ricordatevi del Titanic. Anche l'Inaffondabile
affondò, e cosa sono degli stupidi mortali come
Weathers, Pittman, Fischer, Lopsang, Tenzing, Messner,
Bonington, al cospetto della 'Dea Madre'?
Pertanto ho giurato di non tornare mai in patria, per
non prendere parte a quel sacrilegio.
Concludo ricordando un particolare che mi pare
emblematico delle trasformazioni culturali prodotte
dall'atteggiamento dell'alpinismo moderno (che secondo
me altro non è che una grande metafora della
civilizzazione occidentale) nell'impatto con un altro
ambiente legato ad un altra cultura: gli sherpa ormai,
anche quando parlano tra loro e nella loro lingua,
usano l'oronimo Everest anziché Sagarmatha.
(recensione di Alberto Natale)
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