I mostri in fuga dal Serraglio

Tomaso Garzoni e il 'mostruoso'


di Alberto Natale

Cfr. I mostri in fuga dal Serraglio, in Sculture di carta e alchimie di parole. Scienza e cultura nell'età moderna: voci della Romagna, a cura di Elide Casali, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 87-105.



Per l'osservatore moderno è fonte di meraviglia constatare come le scoperte di nuovi continenti, realizzate grazie ai grandi viaggi di esplorazione marittima dei secoli XV e XVI, non abbiano rivoluzionato l' imago mundi degli europei fin dalla presa d'atto dello sconvolgente allargamento delle mappe del globo, imponendo un nuovo paradigma in grado di orientare le proprie rappresentazioni geografiche e mentali nel nuovo ordine cosmico, che qualche tempo dopo sarebbe stato ancor più profondamente scosso dal penetrante e indagatore sguardo del cannocchiale galileiano. Lo shock culturale, potenzialmente enorme, rischiava di manifestarsi a pochi anni di distanza da un altro passaggio rivoluzionario appena metabolizzato dalla cultura europea.

Un nuovo mondo, quello classico, era stato da poco portato alla luce, navigando all'indietro nel tempo: ora, navigando sul mare, ne era stato scoperto un altro che sembrava minare le certezze apportate dal primo. Si trattava di fare una scelta e, al momento, gli scienziati optarono per l'antichità, non si sentirono in grado di rinunciare ai punti di ancoraggio che essa, da poco, aveva loro fornito1.

Dopo un breve periodo di fervida curiosità sviluppatasi a ridosso delle scoperte, l'atteggiamento dei naturalisti e degli intellettuali ben presto mutò registro, preferendo far quadrare il cerchio delle novità che emergevano e inscrivendolo idealmente all'interno del campo del già noto e già testimoniato; sospinti in avanti da un'accelerazione che rischiava di frantumare un'idealità cosmica assemblata con fatica e pezzo per pezzo, gli osservatori dei naturalia del nuovo mondo si sforzarono allora di integrare le abituali conoscenze rimodellando i confini del vecchio e spostando altrove la frontiera eurocentrica, integrandovi perfino quei mirabilia che dopotutto 'dovevano' trovarsi da qualche parte. Si trattò di una tenace e forse inevitabile operazione di resistenza davanti a novità troppo sconcertanti e che permise a molti di loro di ritirarsi «"nella penombra del mondo intellettuale della loro tradizione"»2.

Risulta esemplare in tal senso un'operetta stampata all'inizio del Seicento che sembra dare conto di quell'immobile «orizzonte onirico»3 destinato a perdurare a lungo nella mentalità europea post-colombiana. Si tratta del «felice, fortunato e stupendo camino di Don Eliseo da Sarbagna Paleologo armeno»4 intrapreso per il «ritrovamento delli tanto remoti Antipodi» la cui relazione venne pubblicata ad istanza della «comica unita» Ortensia Biglia (a cui è attribuito anche il madrigale che suggella il racconto) e dedicata «alli studiosi, et elevati intelletti». Quasi certamente un divertissement, considerando quelle note editoriali che fanno riferimento ai traduttori «Damian Trifonio da Ragusi di Giovenazzo» (dall'armeno al greco) e all'«academico stordito» Flaminio Ardente, «per due occhi orbo» (dal greco all'italiano). La relazione fu riutilizzata quasi sessant'anni più tardi da un altro stampatore bolognese5, espungendo i riferimenti a traduttori e committenti, eliminando dediche e madrigali e trasformando, de facto, l'opera in una cronaca di viaggio. Anzi, il tipografo integrò nel titolo un elemento del racconto, avvisando il lettore che le meravigliose scoperte erano avvenute «mercè d'una taula di bronzo fatta dal grande Alessandro che primo a tant'impresa s'accinse», dove il riferimento pare volto a far leva sulla diffusa conoscenza popolare del leggendario Romanzo di Alessandro, con l'evidente intento di accrescere l'autorevolezza della notizia: pochi sapienti ritocchi, insomma, per trasformare un viaggio fantastico in realtà.

L'impresa del «paleologo» armeno risulta davvero singolare: la geografia che vi viene tratteggiata è un miscuglio di leggende antiche unite ai recenti viaggi di scoperta, mentre le peripezie appartengono a pieno titolo all'immaginario dei favolosi viaggi nelle riarse terre africane o nelle remote lontananze d'Oriente di Jean de Mandeville: partiti alla volta di «Tristam de Cugna» per raggiungere «la terra di Vista, incognita, o del fuoco» don Eliseo e i suoi compagni dovettero sopportare «infiniti travagli» a causa di «fiere», «monti», «paludi», «laghi», «mostri», «perduto camino», «precipizii», perdendo due membri della spedizione «uno de quali fu dal terribilissimo dragone divorato co'l camello, l'altro per l'altezza d'un monte precipitato» prima di giungere «ad una amplissima pianura» in cui si scorgevano «le vestigia d'alcuni alberghi». Aggirandosi tra «le ruine delle meravigliose fabriche»6 venne ritrovata un'imponente tavola di bronzo recante l'iscrizione «in lettere greche che in latino così si direbbero: Gloriae Mag. Alex. Mac. ... qui primis ad antipod. descendit». Poiché la tavola forniva anche l'indicazione della via da seguire (un lunghissimo cunicolo sotterraneo che si dipartiva da una grande spelonca) con tanto illustre viatico la spedizione riuscì infine, dopo molti giorni di penoso strisciare nel ventre della terra, a fuoriuscire sotto il cielo azzurro e diafano del paese degli Antipodi7.

Le meravigliose contrade sembravano calate nel paesaggio delle 'isole beate': clima di «perfezzione d'aere» e di «continua primavera», niente piogge o vento sotto un cielo luminoso «copioso di ruggiada», frutti lucidi e scintillanti «benché di spezie differente dalli nostri» (tra i quali spiccavano per evidenza alcuni che tenevano «in sé scolpita l'umana figura» e certe erbe istoriate con scritte che ricordavano «gli ebrei segni»; spighe enormi con «mille chicchi» imbiondivano i campi che non era necessario coltivare né arare, poiché provvedevano alla bisogna «continui terremoti, benché non perigliosi». Gli animali, docili e mansueti, «vaghi e riguardevoli», erano privi di pelo e mostravano «di stellata pelle il petto e 'l tergo»8; mitezza che condividevano del resto con i signori di quell'eden, la razza degli Antipodi, la cui mostruosità era delicata e gentile (le caratteristiche 'morfologiche' differivano ben poco da quelle europee, fatte salve alcune leggere differenze: la bassa statura, «i piedi... tondi senza fessura apparente», i capelli lanosi ma di color oro - d'argento per i vecchi - gli occhi rossi, il colore della pelle «come il nostro formento ma più chiaro»).

Gli Antipodi vivevano in serenità e semplicità, mangiando soltanto pesce cotto al sole, vestendosi con «pelle di pesci» e costruendo perfino le loro abitazioni con ossa di pesci ricoperte da un impasto indecifrabile. La loro religione era semplice, consistendo nel venerare «alcune statue d'oro con l'iscrizzione Alexander Macedo»9 e la loro indole talmente mite che Don Eliseo, dopo essersi fermato un anno in quelle remote contrade «per spiar gl’intimi sensi di quelli», si ripromise di far ritorno con rinforzi «vistoli al tutto da potersi soggiocare… a Dio piacendo»10.

Questa relazione di una spedizione immaginaria (non ritenuta però tale ben oltre la metà del Seicento) si attiene agli stereotipi del viaggio medievale pur fondendoli in una geografia nuova (Tristan da Cunha e Terra del Fuoco): peripezie, tribolazioni e pericoli, usi e costumi di popoli remoti con l'occasione di razze mostruose, meraviglie, stravaganze e naturalmente mostri, poiché «chi non ha visto mostri, evidentemente non ha viaggiato»11 e se un mostro non viene trovato non significa che non esista, ma semplicemente «che abita più lontano»12. Il resoconto si ispira indubbiamentealla tradizione - in particolare al leggendario del Romanzo di Alessandro, comprensivo del diario di bordo del suo ammiraglio Nearco che per primo aveva parlato del popolo degli ittiofagi13 - e ad echi di fonti classiche che rimandano indietro nel tempo fino a Ctesia di Cnido e a Megastene; gli Antipodi di ciceroniana memoria vengono invece completamente reinventati; vegetali mostruosi, parenti della mandragora o dell'albero wak-wak, insieme a draghi e mostri generici sono dati in un certo senso per scontati. Del resto anche Antonio Pigafetta, costeggiando le propaggini estreme del Sudamerica, si era detto certo che lungo quelle coste vivesse un popolo molto simile ai Panozii («de dietro de questa isola stanno uomini che hanno tanto grandi li picchetti de le orecchie, che portano li bracci ficcati in loro»), riferendo anche come assai degna di fede l'opinione del suo nocchiero:

ne disse il nostro piloto vecchio de Maluco, come appresso quivi era una isola, chiamata Arucheto, li uomini e femmine de la quale non sono maggiori d'un cubito e hanno le orecchie grandi come loro: de una fanno lo suo letto e de l'altra se copreno, vanno tosi e tutti nudi; corrono molto, hanno la voce sottile; abitano in cave sotto terra e mangiano pesce e una cosa che nasce tra l'albero e la scorza, che è bianca e rotonda come coriandoli de confetto, detta ambulon; ma per le gran correnti de acqua e molti bassi, non li andassemo14.

Pochi anni più tardi il suo concittadino e parente Filippo Pigafetta raccolse dal frate portoghese Odoardo Lopez gli elementi per la Relazione del Reame di Congo15, nella quale veniva descritto l'incontro fra i membri della spedizione e il Prete Gianni; Amerigo Vespucci16 per contro, navigando per «incognitas orbis partes», aveva scoperto l'isola dei giganti e i suoi abitanti («procerae magnitudinis homines»17). L'«orizzonte onirico» sembra insomma mantenersi stabile e immutabile e ala suo centro sembra palpitare il «il rimpianto dell'aetas aurea» uno dei più significativi temi del Rinascimento «epoca troppo facilmente identificata con un tempo di speranza e di gioia»18), appagando quel desiderio fisiologico di meraviglie che Torquato Tasso trovava così naturale.

Nondimeno noi ricerchiamo figure riguardevoli e forme nuove e pellegrine, perché le communi e le domestiche e quelle che assai spesso ci si parano davanti non muovono di sé maraviglia ed espettazione di saper più oltre. Penetraremo dunque ne le profonde selve di Germania a ricercar de l'alce e del bonaso e del bisonte, o pur ne le solitudini d'Africa e d'Etiopia la manticora e la catoblepa e l'altre sì fatte?19

Ma lentamente i viaggi di scoperta e la conoscenza di nuovi territori da un lato, la rivoluzione galileiana e l'empirismo baconiano dall'altro, sono destinati a erodere le credenze tradizionali e a gettare scompiglio nelle fila delle canoniche e tradizionali schiere mostruose a cui Tomaso Garzoni aveva cercato, forse inutilmente, di trovare una dimora definitiva. Non si tratta certo di un mutamento repentino e non mancano tentativi di nostalgico recupero, man mano che i nuovi princìpi dell'osservazione diretta si radicano nella cultura scientifica del Sei e Settecento. Tuttavia la semiotica del mostro si avvia verso un inesorabile declino - sia come disciplina sia come indagine di campo - con indubbi benefici per le scienze naturali, liberando le energie intellettuali dalle fatiche enciclopediche e nomenclaturali, dai cataloghi interminabili e dalla necessità di dover riannodare le fila della sterminata legione di auctoritates necessarie nella 'dimostrazione' di tipo scolastico, di quella «caterva de' Filosofi et de' Medici»20 che fino ad allora avevano garantito la solidità di un edificio come quello garzoniano. Benché il panorama delle conoscenze da acquisire si prospetti ben presto foriero di fatiche ancor più dure, per uomini culturalmente attrezzati in modo carente davanti a campi del sapere che cominciano a profilarsi in tutta la loro sconcertante vastità - e sebbene per molto tempo le spinte indagatrici del nuovo spirito scientifico si confondano con le controspinte conservatrici e nostalgiche di tutti coloro che, per abitudine o necessità, erano più inclini a declinare il tempo immobile e lo spazio circolare della cultura medievale all'interno del proprio atteggiamento epistemologico - nonostante le lentezze di processo e le imponenti forze conservatrici che la tradizione, specialmente religiosa, era in grado di mettere sul tappeto, la slavina che si era messa in moto conteneva una forza intrinseca così inarrestabile da non permettere a chicchessia fra sciapodi, cinocefali, sirene e centauri di salvarsi dall'esserne seppellito. Vi furono certamente differenze sostanziali di atteggiamento fra i diversi paesi europei - per esempio tra quelli che avevano beneficiato di espansioni coloniali e quelli costretti in confini più limitati - e non tutte le discipline scientifiche poterono progredire lungo il nuovo cammino con lo stesso passo, ma comunque fu presto chiaro che non aveva più molto senso dedicare tempo e passione a interminabili dispute su cause, natura e finalità relative a fenomeni inosservabili e garantiti esclusivamente dal fatto di essere citati da autori moralmente degni di considerazione.

Il titolo stesso con cui l'opera di Garzoni fu pubblicata, ventiquattro anni dopo la sua morte, è già un segno del mutamento dei tempi: quello che per Tomaso doveva essere un «palagio» diventa appunto un «serraglio». L'idea originaria di Tomaso era fedele alla concezione rinascimentale di un edificio armonico, uno spazio racchiuso, un 'palazzo' in cui la magmatica materia potesse trovare posto e al tempo stesso essere disposta in bell'ordine, strutturata con disciplina e attenzione, 'accasata' in confortevoli appartamenti per mantenere le distanze tra soggetti diversi, a loro volta abitanti ognuno in stanze separate: per accedervi occorreva sicuramente una chiave.

È vero che la struttura dell'opera nei fatti rimase immutata, ma il nuovo titolo concepito dai continuatori, e in particolare dal fratello Bartolomeo - quel serraglio che doveva richiamare i padiglioni delle residenze dei sovrani e potentati del mondo islamico, ma che possedeva in Occidente tutti i connotati della promiscuità degli harem e delle raccolte di animali feroci e che, secondo l'editore, richiamava alla mente le wunderkammern, lambiccate, confuse e affastellate raccolte di mirabilia in voga soprattutto tra i prìncipi nord europei a cavallo tra XVI e XVII secolo - fa pensare a un'organizzazione disordinata e informe, lontana dalla «tensione manieristica»21 di Tomaso e assai più tipico di un sistema di segni eminentemente barocco.

Dopotutto, per Garzoni, l'ordine regnava sovrano nel mondo e i mostri non potevano arrecare un gran disturbo: confinati a ovest da Ercole e a est da Alessandro (la scoperta dei territori americani non sembra neppure essere avvenuta), le creature deformi o difformi ruminavano in silenzio i loro pensieri ominosi. La loro voce, ormai inudibile, cantava soltanto la gloria di Dio.

Il Serraglio garzoniano si propone come contenitore di quel mondo in sé mitico - nel quale la continuità tra antichità e medioevo, la contiguità tra Oriente e Occidente genera una visione totalizzante e universale del sapere, garantito non a caso da un corpus di auctoritates di cui l'autore vuol farsi encomiabile segretario, proporsi come umile bibliotecario addetto all'inesausta frequentazione di una sala di lettura - in cui le razze mostruose si riducono a vaghezze remote testimonianti l'imperscrutabile disegno del creatore.

Garzoni (in sintonia con la cultura della Riforma cattolica) cerca di rinchiudere i mostri in uno spazio delimitato e razionale, ma non rinuncia a mantenere vivi gli aspetti favolosi e irrazionali di cui quello spazio è profondamente impregnato, non rinuncia alla realtà dei mostri. Ma in tal modo concede loro di circolare liberamente e di mantenere un forte presidio nell'immaginario dei contemporanei (specialmente in quello degli addetti ai lavori22, incaricati della mediazione culturale con i ceti illetterati), favorendo così la fuga disordinata dei mirabilia in giro per il mondo, fuga ancor più pericolosa perché capace di trovare accoglienza nel sostrato superstizioso popolare (proprio quello che i religiosi miravano a dissolvere), incline ad accettare l'irrazionale senza lo schermo di un opportuno vaglio critico in materia.

Il ruolo di conservatore assunto da Garzoni (nel senso di addetto a una biblioteca di conservazione dove il liber torna ad essere oggetto sacrale che non ha quasi bisogno di venire aperto)23, l'aspirazione a farsi custode di un mondo che aspira all'immobilità - ben lontano, per inciso, dallo spirito dell'autore della Piazza universale di tutte le professioni del mondo - spiega l'aspra polemica innescata nei confronti di Leonardo Vairo e in particolare del medico riformatore spagnolo Juan Huarte24, rei di ritenere la 'teoria immaginativa' una dottrina superstiziosa, sprezzando sacrilegamente la sacertà delle auctoritates della tradizione scolastica:

non acconsente Giovanni Huarte… per esser egli non poco terribile contro chi sente l'imaginativa haver forza nella generatione, stimando egli questo parere da Filosofo vulgare. Il simile scrive Leonardo Vairo, anzi aggiunge, che tal parere è di persone superstitiose, & ignoranti affatto de i veri principij Filosofici… Nientedimeno chi vuole ben pensare, come sì deve ogni dire di questi galant’huomini, trovarà quelli essere di soverchio audaci, & il lor discorso fuori d’ogni buon termine, & fondamento; & per mostrare che in ciò non parlo punto à passione, ma per verità; è possibile che l’Huarte, & il Vairo non arrossischino nel chiamar opinione de’ volgari quella che l’imaginativa possa nella generatione, frà gli altri avvertendo il medesimo Huarte, che Aristotile tenuto il primo filosofo del mondo risolve… che gli huomini producono maggiormente parti varij di quello, che faccino i Bruti, per esser quelli via più, & questi assai meno distratti nell'atto carnale quanto alla imaginatione? Ad Aristotile acconsente pur anco Plinio… E chi fu Plinio, forse un ingegno plebeo?25

Sommergendo gli incauti sotto una valanga di testimonianze, da Galeno a Pisone, da Michele di Medina, da san Girolamo a Quintiliano, da Ippocrate a sant'Agostino, per non parlare del celebre passo biblico della Genesi in cui Giacobbe si giova della forza dell'immaginazione generativa per ottenere un cospicuo incremento del suo gregge26, Garzoni assesta a Huarte colpi a ripetizione insieme a minacciosi avvertimenti. Nel respingere con durezza alcune prese di posizione del medico spagnolo (soprattutto le teorizzazioni intorno all’intelletto inteso come «potenza organica»27 e l’opinione che il Demonio fosse in grado di entrare nei corpi delle persone principalmente per il fatto che queste «hanno le qualità da lui bramate»28 Garzoni non manca di sottolineare che con certe sue affermazioni «l'Huarte… corre un gran rischio, & che con vergogna più tosto, che con honore disputa, poscia che nella sua ragione assume propositione inconveniente, anzi falsa, & erronea, & nella via della verità assolutamente heretica»29, concludendo «che il pensier dell'Huarte è abominevole nella fede» e che le sue «impertinenze» sono degne soltanto «d'eterno oblio e di somma confutazione»30.

Se l'antichità aveva sancito il connubio tra mostri e sogni il medioevo cristiano si proponeva piuttosto di delegittimare entrambi: soltanto Dio era il motore dei sogni e il custode del segreto mostruoso. La prima modernità si divide pertanto tra il desiderio di imbalsamare i mostri e di controllare i sogni con gli elettuari. Sogni e mostri allora si ribellano e diventano incubi, si caricano di tutte le conseguenze che possono scaturire dall'inespresso, nell'ambito di un potere cosmico di cui si comincia a percepire l'insondabile profondità. Mentre, lentamente ma inesorabilmente, sfumano le dispute di natura scolastica i mostri pervadono in silenzio l'immaginario collettivo.

Dio li manda ancora in mezzo agli uomini come moniti, anzi ne moltiplica la frequenza, ma proprio per questo motivo il loro carattere terrifico si accentua, sovrastando ormai del tutto l'idea di meraviglia del creato e producendo con ciò una profonda frattura con l'ordine medievale: la prima modernità scopre di vivere sotto un cielo minaccioso dal quale dardeggiano sinistri avvertimenti. Se potesse preferirebbe dimenticarsi dei mostri, ma è costretta a subirli ormai con stuporoso orrore.

I mostri della tradizione tendono a non trovare più la loro casa. Il connotato stesso della residenza islamica del Serraglio con quel suo sovrasenso espresso da una cultura ancestralmente nomade, sembra avvertire la difficoltà di portare ordinatamente con sé, nei frequenti traslochi, una così ingombrante compagnia.

Il Serraglio garzoniano è un edificio mentale con il quale (almeno per mostri e prodigi) si chiude un'epoca. Abbandonati e in libera uscita i mostri tuttavia non scompaiono dalla scena e se cominciano ad occupare uno spazio relativo e residuale nella riflessione degli intellettuali trovano per contro ampio pascolo nell'immaginario degli illetterati e delle persone comuni, garantendo così una lunga sopravvivenza alle tematiche prescientifiche elaborate per secoli negli ambienti colti, non soltanto a causa di un travaso culturale millenario - scarsamente mediato da istanze critiche in un ambiente fertile e da sempre abituato a mescolare realtà e meraviglie - ma anche perché la facile penetrazione di simili temi si prestava ad essere strumentalizzata per immettere, nel medesimo canale comunicativo, quegli argomenti che poteri religiosi e civili ritenevano utili per educare il gregge o i sudditi. La tentazione di forzare la mano per trasmettere insegnamenti morali e moniti pastorali, inserendoli in racconti e relazioni di grande attrattiva anche se confezionati ad arte, era insomma troppo forte, avendo a portata di mano un medium come la stampa, in grado di raggiungere un nuovo pubblico su vasta scala e con poca spesa. Le armi propagandistiche utilizzate nella prima età moderna per raggiungere un pubblico semianalfabeta (specialmente quello urbano caratterizzato da una volatilità culturale assai più marcata rispetto a quello del contado) configurano una metodica nuova e originale per raggiungere obiettivi che tradizionalmente potevano essere conseguiti soltanto con gli strumenti della predicazione e della mediazione iconografica.

Sotto questa luce si deve inquadrare quella vasta letteratura che, con evidenti scopi di propaganda, si diffuse dalla fine del Cinquecento fin oltre la metà del Settecento, facendo leva su temi sensazionalistici31 ('cronaca nera', efferati delitti, punizioni esemplari di feroci criminali) che finiva per ricomprendere anche cronache di avvenimenti prodigiosi, luttuosi e catastrofici. Veicolata a mezzo stampa e in forma anonima, attraverso una capillare produzione che si giovava dell'intermediazione di modesti stampatori non in grado di competere con le tipografie che avevano come riferimento i consumatori colti, tale letteratura aveva una vita effimera come i supporti su cui circolava, generalmente poveri quadernetti composti di due o quattro carte.

Insieme ad altre produzioni popolareggianti32 questo genere di stampe diventa utile per illustrare una determinata e importantissima fase di quel processo di travaso verticale e quasi unidirezionale, a cui si accennava, e che permetteva a idee e concezioni tipiche della cultura d'élite di scivolare nell'ambito ricettivo di quella popolare.

I mostri e i prodigi di queste relazioni (che continuarono a prodursi a lungo, almeno in Italia, fino al perdurare dell'egemonia culturale della Chiesa) sono in realtà in libera uscita, e si muovono quasi del tutto svincolati da tassonomie come quelle del Serraglio: si radunano senza logica e senza disciplina, riappaiono dalle più remote immaginazioni degli antichi e dall'esotismo più remoto, si rimodellano in fogge nuove e stravaganti, trovano nuovi habitat e nuove forme di selvatichezza per calarsi nel quotidiano dei lettori. L'effetto è catastrofico e schizofrenico: se la politica pastorale della Chiesa auspicava una serrata lotta alla superstizione popolare, l'intima contraddizione dei fondamenti tradizionali del meraviglioso - utilizzato come cavallo di Troia per inculcare i rudimenti della nuova morale cristiana - finisce in realtà per alimentare le credenze irrazionali anziché eliminarle. L'unico obiettivo che viene centrato è sicuramente importante ai fini della propaganda (il riconducimento del mostro alla volontà divina e il suo palesamento come spia dei peccati del mondo), ma il prezzo pagato è altissimo; e quando la teodicea verrà percepita anch'essa come una superstizione la catastrofe sarà completa e risulterà in gran parte responsabile della separazione più completa tra scienza e religione, tra cultura d'élite e cultura popolare, nel quadro più ampio di una nascente cultura di massa in cui quelle relazioni della letteratura di consumo si presentano come ideali prototipi.

Contemporaneamente dalla fuga dalle gabbie teologiche e scolastiche si assiste al precipitare del mostruoso nel regressivo mondo del 'selvatico' e dell'inconoscibile. I mostri diventano del tutto misteriosi e parlano una lingua ormai incomprensibile, ricca di minacce ma sostanzialmente indecifrabile. Tornano ad essere enigmi come la Sfinge per Edipo e il loro agire appare del tutto fuori controllo.

Quando il cannocchiale inizia infine a posare lo sguardo sulle plaghe remote ed esotiche in cui i mostri per tradizione abitavano, con l'intento di osservare da vicino le loro fattezze difformi, sarà un fiorire di 'rivelazioni' non proprio prodigiose, un prendere atto - benché con difficoltà e a volte trascinando gli equivoci ancora per decenni - che tanti erano stati gli abbagli, le lucciole prese per lanterne. La lentezza del disincanto non deve tuttavia far pensare che il processo che si era messo in moto non rappresentasse una svolta radicale nel pensiero scientifico europeo. La rivoluzione (che come tutte le rivoluzioni professa un metodo che sovverte il vecchio sapere) rendeva pressoché irrilevante la presenza dei mostri, almeno in ambito intellettuale. I mostri stessi, che avevano per necessità di cose bisogno di una sorveglianza attenta, cominciano a migrare privi ormai di un padrone, o almeno di un custode, di un referente terreno. I dotti e gli scienziati pian piano smettono di occuparsi di loro, di ravvivarne le cangianti livree e di foraggiarli (già Garzoni reputa impossibili i centauri, chiedendosi, sulla scorta di Galeno, che cibo potrà mai essere confacente a una simile duplice natura33. Ciò naturalmente non significa che i mostri smettano di colpo di esistere ma piuttosto che, lasciati senza pastore, avranno semplicemente la tendenza ad inselvatichirsi, perdendo ogni connotato di domesticità, e ad allontanarsi dalle cadenti recinzioni del serraglio che li accoglieva, sentendosi trattati come animali da circo a cui nessuno da più da mangiare.

Ciò nonostante, pur perdendo i connotati della vaghezza, i mostri restano gli strumenti principali attraverso cui Dio manifesta tutta la sua arcana potenza. Le convinzioni dei filosofi, troppo a lungo propalate con stilemi di ripetitività e assiomatismo, trovano tra gli illetterati ancora vasto ascolto. E naturalmente i predicatori conoscono bene i gusti 'esotici' del proprio pubblico. Da qui nasce l'uso fondamentalmente propagandistico che per altri due secoli mantiene vivo ciò che per l'élite diventa inesorabilmente superstizione, quel processo che d'altronde investe l'intero sentimento della 'meraviglia', «degradata da prima passione filosofica al suo opposto» non più oggetto di «venerazione riverente» ma semmai di «stupore ottuso», «passione tipica della massa volgare piuttosto che dell'élite filosofica»34.

Dall'Enciclopedia (ordinata per sequenze nomenclaturali di auctoritates) alla Wunderkammer (nata per celebrare e non certo per conoscere e quindi dopotutto antitetica all'Enciclopedia) i mostri si disseccano come reperti scientifici, ma in compenso si liberano nell'immaginario rompendo le catene di una rappresentazione millenaria. Per certi versi si emancipano, diventano liberi di formarsi a piacimento. All'inizio dell'età moderna si assiste ad un fenomeno di liberazione immaginativa delle forme che non aveva avuto praticamente precedenti. In fondo il medioevo non aveva inventato mostri particolarmente nuovi e si era limitato a codificare il retaggio proveniente dall'antichità da un lato e dalla mediazione orientale dall'altro, i cui innesti, come è noto attraversarono tutto il medioevo, viaggiando in gran parte su stoffe e tappeti35. La trasformazione più nota fu quella della sirena che da ibrido donna-uccello, non troppo dissimile quindi dall'arpia, si sessualizzò peccaminosamente nell'emblema della donna-pesce36, assimilazione del resto non definitiva visto che uno dei fratelli Carracci (non è chiaro se Annibale o Agostino) proprio alla fine del Cinquecento disegnò i mostri, che dovevano affrescare le pareti del Camerino Farnese, fedele al modello classico della donna-uccello37 troppo poco quindi per un'epoca ritenuta generalmente foriera di ogni mostruosità.

Negli assemblaggi mostruosi del periodo tardo-rinascimentale e barocco i modelli della tradizione sono spesso ben riconoscibili e non mancano neppure i calchi di forme già utilizzate in passato specialmente per quanto attiene ai mostri con funzioni allegoriche e carica profetica38. A questa categoria appartiene il «figliuolo mostruosissimo, della forma e figura di un uomo armato da capo fino alli ginocchi» comparso a Lisbona, secondo una relazione nel 163939 con una vistosa croce di carne sul petto. La madre per sottrarsi alla «vergogna che da così prodigioso mostro pensava dovergli causare» pensò di far scomparire «la tromba del suo obbrobrio», trasferendolo «dalle viscere sue a quelle della terra»40. Il proposito le fu impedito, ma la donna risolse in altro modo il problema e cioè cessò di alimentare il bambino. Il cadavere fu riesumato per ordine del Vescovo e un ritratto della creatura fu inviato al Re. Il caso produsse «general terrore e meraviglia in Portogallo» e se ne dedussero «grandi giudicii astronomici»: in particolare fu studiato da «sei uomini dottissimi nella detta scienza», benché sembrasse chiaro che il suo significato più evidente era di servire «di specchio e ricordo perché si emendiamo, né più irritiamo l'ira di Dio». Restava soltanto qualche dubbio su quella croce nel petto del mostro che poteva anche significare «esaltazione della Santa Fede Cattolica»41.

A «Baiona» città francese «molto notabile et assai popolata»42, dopo giorni angosciosi di segni celesti e prodigiose marce nel cielo di eserciti in armi, nacque infine, da due nobili pellegrini ingiustamente incarcerati, un bambino con trentatre occhi tutti aperti e mossi «con molta attenzione e saviezza… come fosse d'uomo vecchio»42. Non visse che una ventina di giorni duranti i quali, in differenti riprese pronunciò l'ammonitrice sentenza «Timete Deum» «vigilate et orate» «quia nescitis horam», «che vuol dire vigilate tutti e state in orazione che debbiamo morire», come «ogni giorno ci dicono li nostri cattolici predicatori»43. Sempre in Francia, a Mark a due leghe da Calais, generato da una «belle & ieune femme» nacque nel 1649 un mostro con «un corne à la teste» un piede da «chevreüil» e l'altro «rensemble au pied d'une poulle» che stringeva in mano una pergamena con un'inquietante scritta: «Ie destruiray celuy qui m'a engendré»44. Anche in questo caso non vi furono dubbi sul fatto che il mostro fosse stato inviato da Dio «pour nous aduertir de quelque sinistre accident»45.

La chiara natura ammonitrice di queste creature sembra in definitiva l'unica cosa che conti davvero: deboli sono in realtà i tentativi di trovare significati allegorici e quando vi si accenna si lascia cadere il discorso come se si trattasse di un'impresa dopo tutto inutile, stante l'evidenza del senso principale e del suo significato di invito alla contrizione palesato da mostri parlanti come quello di Baiona o come quello con tre teste (una umana, una di lupo e la terza «di teschio o testa di morte»46) nato a Brünsvich, nel 1625 che prima di morire scagliò un veemente anatema, gridando «con alta voce»:

ò guai, ò guai generatione humana, piangi li tuoi gravi peccati perché Iddio non mi ha mandato a caso in questo mondo, ma per essortarvi à lasciare le bestemmie, spergiuri, avaritie, pompe e superbia, poiché ciascheduno fa ciò che gli piace, lasciando non solamente patire il povero, anzi gli togli anco il pane dalla bocca47.

Anche Tomaso Garzoni cita esempi di certi mostri 'parlanti', all'interno di «un catalogo de' mostri più stravaganti»48, come quello di «horrendo aspetto fuor di modo». comparso, non era chiaro, se nelle Fiandre o a Cracovia, e che prima di morire aveva ammonito gli uomini con la sentenza «Vigilate, Dominus vester adventat», osservando tuttavia che la notizia andava presa con cautela, diffusa com'era «da quei tre sacrileghi et nefandi mostri della Germania, Gasparo Peucero, Gasparo Bruschio, et Mustero huomini di memoria indegni»49. Come avvertiva l’autore di una relazione del 1575, intorno al parto mostruoso di una donna ebrea nel ghetto di Venezia, nel pubblicare certe notizie «per più intelligenza delli mediocri e men dotti, desiderosi d'intender gli alti secreti della natura»50, occorreva fare attenzione a non diffondere interpretazioni erronee, o peggio eretiche, limitandosi a circoscrivere la curiosità all'inequivocabile significato del monito divino, senza andare con ciò oltre. Ma in tal mondo le complesse figurazioni dei mostri, le loro indecifrabili anomalie con i contenuti allegorici che ne discendono, diventano semplici materiali in eccesso, pronti ad essere ricombinati a piacimento, capaci di riplasmarsi in autonomia in mancanza di una vera linea guida.

Ancor più alla deriva appaiono le mostruosità zoomorfe che libere ormai di imperversare a loro piacimento e non più confinate ai bordi dell'oikouméné, si manifestano sempre più spesso nei territori europei al centro del mondo. Prediligono ancora certe plaghe dove l'irradiamento cristiano viene percepito come assente o insufficiente (l'est europeo, il nord Europa e i domini turchi) ma non disdegnano il cuore della cristianità rappresentata come una comunità assediata. In fondo l'espressione gesuitica di «nostre Indie»51 svela ciò che si era spesso taciuto e che cioè fosse ancor più necessario predicare ed evangelizzare qui da noi che non in terre lontane, perché la cristianità aveva troppo a lungo considerato sicuro il proprio cerchio di irraggiamento, dimenticando però che perfino nel cuore del nostro mondo esistevano interspazi che contenevano innumerevoli anfratti in cui i mostri potevano facilmente e comodamente celarsi. Sembra essere il caso del «mostro robustissimo e fiero» catturato in epoca imprecisata (la relazione non è datata anche se certamente seicentesca) e che aveva vissuto indisturbato, fino ad allora, fra le montagne di Carrigo in Catalogna, rifugiato in una «tenebrosa caverna… cinta da foltissimi rami»52.

Si trattava di una creatura con sette teste, sette braccia e due sole gambe con «piedi caprini»:

Contemplandolo viddero che avea sei teste da uomo et in mezzo a queste una più grande delle altre n'appariva, con un sol occhio in mezzo il fronte, conforme di Polifemo si favoleggiava, con la bocca di questa sola testa, se bene ch'ogn'una delle altre avesse la sua, muggiva, mangiava e beveva… Due orecchioni d'asino gli spuntava ch'in vero non potea burlarsi di Mida, il corpo dal mezzo in su era d'uomo, dal mezzo in giù da satiro, che s'una sol testa e due sole braccia avesse auto, ogni uno l'avria creduto per Pane dio de boschi; il sesso tutto coperto da peli caprini e malamente formato si lascia da parte non distinguendosi se maschio o femina fosse53.

Dopo una movimentata e cruenta operazione di cattura il mostruoso prodigio fu portato in corteo in tutto il paese accompagnato da «innumerabilissimo popolo» e con grande strepito di «tamburi» «trombe» «sbari d'arcobugi» e fiaccolate. Se il popolo si divertiva il re, turbato dalle tante allusioni mitologiche del mostro, chiese consiglio all'«eruditissima Accademia di Salamanca», ma le interpretazioni che vennero date risultarono confuse e inutili: chi vedeva negli occhi delle «sei teste minori» una croce risplendente, chi un leone «anelante» a balzare in un altro occhio, dove una mezzaluna simile a una barca ondeggiante su un «mare procelloso» sembrava sul punto di affondare e chi ancora «nella lingua di ciascuna di esse teste» riconosceva «certi caratteri ebraici e caldei» che tradotti in castigliano significavano: «nos ganamos dos mortales enemigos». In definitiva «questa cifra mostruosa della natura poco fu intesa», facendosi beffe dell'erudizione di quei «venerabili Padri» e mostrando «l'imperfezzione del sapere umano», tanto che «da una femminuccia vile furono scherniti col domandarli che prima loro si sapessero numerare li peli della loro barba e poi chimerizzassero sopra il mostro»54.

In questa relazione si assiste addirittura a un rovesciamento di prospettiva culturale: ciò che era facilmente interpretabile dal lettore meno istruito come un chiaro segno divino annunciante una vittoriosa impresa cristiana-veneziana nei confronti del Turco infedele, diventa un enigma irrisolvibile per tanti sapienti abituati ormai a filosofare inutilmente nel nome di una conoscenza antica e ormai allo sbando.

L'inselvatichirsi dei mostri è del resto assai evidente in quelle relazioni in cui sono del tutto assenti raffigurazioni allegoriche: l'«indomita bestia» di figura semiumana (raffigurata come un grande satiro), «nera e pelosa», con mani che sembravano «più tosto esser artigli» e dotata di «forza inaudita», che imperversava nella «terra di S. Giorgio nell'Ungheria superiore» secondo un resoconto del 168655, era invulnerabile ai colpi d'arma da fuoco, sprizzava «faville di fuoco» dalla bocca ed era capace non solo di uccidere uomini e animali ma anche di sradicare alberi e disseccare le coltivazioni.

Flagelli, calamità, forze distruttive e omicide: questa è la nuova carta d'identità delle creature mostruose che impazzano prive di controllo, per seminare morte e distruzione come «le spaventose belve» che si aggiravano nei «contorni di Nazaret», secondo una «vera e distinta relazione» stampata nel 172856, e che fecero «un memorabile scempio di più migliaia d'uomini», un «macello» di «abitatori e passaggieri» prima di essere abbattuti in una terribile battaglia campale da un possente esercito di duemila fanti e tremila cavalieri che ne uscì più che dimezzato. L'anonimo relatore era certo che le orrende creature, raffigurate come un indistinguibile miscuglio tra il leone, la manticora e il grifone, munite di un profluvio di zanne, artigli, ali membranose e placche cornee, fossero state inviate da Dio in persona per punire «quei cani perversi, che studiano ogni giorno come abolire, se possibile fosse, da tutto il mondo il nome cristiano»57.

I téras dell'antichità, segni ominosi che richiedevano un interprete professionista, capace di decifrare la voce del mostro grazie alla capacità di dialogare con l'oltretomba, non sono ormai che un remoto ricordo. Qualcuno tenta ancora di decrittarne i segni, ma generalmente non approda a nulla, venendo perfino dileggiato, o ricavandone semplicemente ciò che tutti già sapevano e cioè che la manifestazione dell'ira divina è ormai un tutt'uno con la carica terrificante e distruttiva dei mostri, flagelli di un Dio sdegnato, anzi «nauseato»58 dal comportamento umano. Gli attributi ormai sono soltanto bestiali, feroci, omicidi, demoniaci. Sono ormai lontani i tempi in cui i mostri si convertivano e diventavano santi (il cinocefalo san Cristoforo59). Il mostro angelico sognato da sant'Agostino e ritenuto ancora da Garzoni - sulla scorta delle tesi di Francesco Veniero - uno strumento per arricchire la bellezza del creato, «onde se l'universo è buono, i Mostri saranno cosa buona, & intesi dalla natura»60 e non certo prodotti a caso - non ha ormai più alcuna plausibilità, mentre il mostro profetico parla una lingua incomprensibile da cui si ricava soltanto il tono di profonda minaccia e la promessa di vendetta e strage.

Durante l'epoca moderna, nel venir meno del potere di coesione della Chiesa, i mostri finiscono per caratterizzarsi sempre più come residui di natura selvaggia (come «la bestia feroce» di Milano che «facea stragi di Fanciulli, e atterriva gli uomini»61) adatti a mantenere viva la paura. Non lasciano particolari segni nella letteratura dei secoli della rivoluzione scientifica e si riaffacciano soltanto quando la positività di tali trasformazioni comincia a venir messa in discussione, la sua autorità ad incrinarsi, il suo fascino ad offuscarsi. Le creature mostruose della letteratura che prendono vita nell'epoca in cui la scienza comincia a nutrire dubbi sulla propria onnipotenza - come la creatura inventata da Frankenstein - diventano gli emblemi di un mondo fuori controllo, nel quale la protervia umana crede stoltamente di tirare i fili delle marionette del creato, mentre un potente rimosso folklorico comincia a rigettare dalle tenebre vampiri e licantropi. Ma sarà soltanto con l'avvento di un genere tipicamente novecentesco come la letteratura di fantascienza e soprattutto con il cinema, che i mostri troveranno nuovamente una loro confortevole casa, ormai proiettata nello spazio profondo, «nel nuovo caos indifferenziato che è l'outer space, lo spazio alieno», trasformati in creature sibilanti e stridenti, ma in realtà «mute maschere di quanto è ormai sprofondato "negli abissi dell'anima"»62.





NOTE




1- Giuseppe Olmi, L'inventario del mondo. Catalogazione della natura e luoghi del sapere nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 234.

2- Ivi, p. 232. La citazione riportata da Giuseppe Olmi è tratta da John Huxtable Elliott, Il vecchio e il nuovo mondo. 1492-1650, Milano, Il Saggiatore, 1985, p. 26.

3- La celebre espressione di Jacques Le Goff illustra il processo mentale medievale che sembra proseguire anche nella prima modernità: L'Occidente medievale e l'Oceano Indiano: un orizzonte onirico, in Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi, 1977, pp. 257-277.

4- Avviso o lettera curiosissima del nuovo felice fortunato e stupendo camino, di Don Eliseo da Sarbagna Paleologo Armeno, verso la Terra di Vista, incognita, o del fuoco, così chiamata dalli geometri, et antichi marinari; con il ritrovamento delli tanto remoti Antipodi, con la descrizzione di quei fortunatissimi paesi, leggi, culto, vitto, vestito, figura, longhezza di giorni, di stagioni, et altre cosecuriosissime, tradotta d'armeno in greco, per Damian Trifonio da Ragusi di Giovenazzo. E dalla lingua greca in italiana da Flaminio Ardente, per due occhi orbo, Acad. Stordito. Ad instanza della signora Elena Biglia da Gorizia, detta Ortensia, comica unita. In Viterbo et poi in Bologna, per Bartolomeo Cocchi, 1609, cc. 8 n.n.

5- Avviso o lettera curiosissima del nuovo felice fortunato e stupendo camino, di Don Eliseo da Sarbagna Paleologo Armeno. Verso la Terra di Vista, incognita, o del fuoco, così chiamata dalli geometri, et antichi marinari. Con il ritrovamento delli tanto remoti Antipodi, con la descrizzione di quei fortunatissimi paesi, leggi, culto, vitto, vestito, figura, longhezza di giorni, di stagioni, et altre cose curiosissime. Mercé d'una Taula di bronzo fatta dal grande Alessandro, che primo a tant'impresa s'accinse. Con loro secreti chimici medicinali et altre maraviglie, in Bologna, per il Sarti, 1667. Le citazioni che seguono appartengono a questa edizione.

6- Ivi. Le citazioni finora utilizzate sono in c. 2 v.

7- Ivi, c. 3 r. È sorprendente la somiglianza di questa parte del racconto con il romanzo di Jules Verne, Viaggio al centro della Terra.

8- Ivi, c. 4. v.

9- Ivi, c. 6 v.

10- Ibidem.

11- Claude Kappler (1980), Demoni mostri e meraviglie alla fine del medioevo, Firenze, Sansoni, 1983, p.105.

12- Franco Cardini, L'invenzione dell'Occidente, Chieti, Solfanelli, 1995, p. 91.

13- Anche nel Liber monstrorum (II, XXVI) si fa riferimento ad un popolo «vicino a quello degli Indi» che confeziona vestiti con pelli di balena. Cfr. Franco Porsia (a cura di), Liber monstrorum, Bari, Dedalo, 1976.

14- Antonio Pigafetta, Relazione del primo viaggio attorno al mondo (1524). Ed. elettronica Progetto Manuzio: ⁢http://www.liberliber.it/biblioteca/p/pigafetta/relazione_del_primo_viaggio_intorno_al_mondo/pdf/relazi_p.pdf>. 22 gennaio 2007, p. 48. La citazione precedente è a p. 15. (Conforme a Relazione del primo viaggio intorno al mondo, a cura di Camillo Manfroni, Milano, Istituto editoriale italiano, 1956).

15- Filippo Pigafetta, Relatione del Reame di Congo et delle circonvicine contrade. Tratta dalli scritti et ragionamenti di Odoardo Lopez portoghese. Per Filippo Pigafetta. Con disegni vari di geografia, di piante, d'habiti, d'animali, et altro. Al molto illustre e reverendissimo Monsignore Antonio Migliore, vescovo di S. Marco et Commendatore di S. Spirito, in Roma, appresso Bartolomeo Grassi, s.d. [ma 1591]. L'esploratore incontra anche certi animali dai contorni favolosi che «grandi come un montone, a guisa di draghi, hanno le ali e la coda, e il muso lungo con diversi ordini di denti...; li negri gentili sogliono adorarli come dei et hora se ne veggono alcuni serbati da loro in maraviglie» (p. 33).

16- Probabilmente tra le fonti del viaggio fantastico di Don Eliseo da Sarbagna non doveva essere estranea una lettera di Vespucci - nella quale l'esplorazione degli «antipoti» si rivela su un piano di consapevolezza della continuità con un mondo immaginato fin dai tempi antichi - che, variamente rimaneggiata, fu pubblicata a più riprese tra il 1502 e il 1504 in diversi paesi europei. La citazione e il riferimento sono tratti da Massimo Donattini, Dal Nuovo Mondo all'America. Scoperte geografiche e colonialismo (secoli XV-XVI), Roma, Carocci, 2004, p. 57.

17- Tomaso Garzoni da Bagnacavallo, Il serraglio de gli stupori del mondo. Diviso in diece appartamenti, secondo i vari, & ammirabili oggetti..., in Venezia,1613, appresso Ambrosio et Bartolomeo Dei, fratelli. Alla libraria dal San Marco. In questa sede si utilizza l’edizione modernizzata: Il serraglio de gli stupori del mondo. Con le aggiunte del fratello Bartolomeo Garzoni, introduzione di Paolo Cherchi, Russi, Vaca, 2004. Le citazioni sono a p. 17.

18- Jean Delumeau (1992), Storia del Paradiso. Il giardino delle delizie, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 157; in particolare il capitolo Nostalgia (pp. 155-183).

19- Torquato Tasso, dal dialogo Il Conte (overo de l'imprese), 140. Le parole sono del «Forestiero Napolitano». L'edizione di riferimento è quella a cura di Bruno Basile, Roma, Salerno, 1993, p. 150.

20- Tomaso Garzoni, Il Serraglio..., cit., p. 32.

21- Ivi. L’espressione è di Paolo Cherchi a p. XIV dell'introduzione.

22- Il Garzoni cita nel frontespizio della sua opera diverse categorie di intellettuali che possono giovarsi degli argomenti trattati nel suo Serraglio, ritenendoli utili «per Theologi, Predicatori, Scritturisti, e Legisti; come per Filosofi, Academici, Astrologi, Historici, Poeti, & altri», cioè, in pratica, per ogni intellettuale. Comunque l'indicazione dei predicatori sembra molto significativa.

23- Mettere i mostri all'interno di un libro significa appunto «internarli»: l'espressione è di Corrado Bologna (a cura di), Liber monstrorum de diversis generibus. Libro delle mirabili difformità, Milano, Bompiani, 1977, p. 21.

24- Juan Huarte de San Juan (1529-1588) medico e fisiatra aveva descritto come la proprietà essenziale dell'intelligenza umana la capacità della mente di produrre al suo proprio interno, in virtù della sua potenza, i principi su cui si basa la conoscenza, idee destinate ad avere in seguito largo credito e notevole importanza. (Juan Huarte de San Juan, Examen de ingenios para la ciencia, Baeza, Juan Bautista de Montoya, 1575. L'opera dello Huarte, tradotta in molte lingue, ebbe due edizioni italiane a Venezia nel 1582 e a Roma nel 1619 e vasta eco soprattutto in Spagna e in Portogallo, giungendo ad influenzare l'invenzione dei principali personaggi del Don Chisciotte di Cervantes. Tali benemerenze non le evitarono di finire all'Indice in Portogallo nel 1581 e poi in Spagna nel 1583. Cfr. Esame degli ingegni, a cura di Raffaele Riccio, Bologna, CLUEB, 1993).

25- Tomaso Garzoni, Il Serraglio..., cit., pp. 128-129.

26- Sulla ‘teoria immaginativa’, cioè sulla facoltà dell'immaginazione (soprattutto femminile) potenzialmente in grado di influire sulla generazione e quindi anche sulla generazione mostruosa) i riferimenti sarebbero innumerevoli. Si ricorda tuttavia che fra i più autorevoli fautori di tale teoria vi furono anche autori in controtendenza rispetto alla tradizione quali Giambattista della Porta e Levinio Lennio. Per una analisi sotto il profilo dell'eugenetica si veda Massimo Angelini, Immaginazionismo ed eugenetica in età moderna. Contributo per la storia di un'idea, in «Quaderni Internazionali di Storia della Medicina e della Sanità», III (1994), 2, pp. 3-28 ,ed. elettronica < www.caprifico.it/scritti/scritti_massimo/1994_immaginazionismo_ed_eugenetica.pdf>. 19 gennaio 2007. Sulle dispute già a Settecento inoltrato tra i fautori e i detrattori di tale teoria in Inghilterra, intorno a un celebre caso in cui una popolana aveva generato dei conigli in virtù di un presunto effetto immaginativo, si veda dello stesso autore Chimere e singolarità della generazione in età moderna tra pratica dell'impostura e presunti effetti dell'immaginazione materna, in «Anthropos & Iatra», I (1997), 2, pp. 27-36, ed. elettronica < www.caprifico.it/scritti/scritti_massimo/1997_chimere_e_singolarità.pdf>. 19 gennaio 2007.

27- Tomaso Garzoni, Il Serraglio…, cit., p. 151.

28- Ivi, p. 159.

29- Ivi, p. 155.

30- Ivi, p. 161.

31- Per una rapida panoramica sul genere: Alberto Natale, La piazza delle crudeltà e delle meraviglie. Giulio Cesare Croce e la letteratura del 'sensazionale' e del 'prodigioso', in Elide Casali e Bruno Capaci (a cura di), La festa del mondo rovesciato. Giulio Cesare Croce e il carnevalesco, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 177-195.

32- Fra i diversi generi letterari popolareggianti che rappresentavano una «mediazione tra cultura dotta e cultura popolare» assunsero particolare rilevanza i pronostici perpetui nei quali la «divulgazione della tradizione cosmologica, astrologica e medica di nobile e letteraria ascendenza» raggiungeva, in forma spesso ciarlatanesca «le fasce più povere della società, dove le prestazioni mediche e le divinazioni astrologiche o fisiognomiche dei dottori costituivano lussi difficilmente raggiungibili». Il rimando e le citazioni si riferiscono all'opera di Elide Casali, Le spie del cielo. Oroscopi, lunari e almanacchi nell'Italia moderna, Torino, Einaudi, 2003, pp. 223-224.

33- Tomaso Garzoni, Il Serraglio..., cit., p. 84.

34- Lorraine Daston - Katharine Park (1998), Le meraviglie del mondo. Mostri, prodigi e fatti strani dal medioevo all'Illuminismo, Roma, Carocci, 2000, p. 257.

35- Jurgis Baltrušaitis (1972), Il medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell'arte gotica, Milano, Adelphi, 19932, p. 132 e ss.

36- La prima attestazione di tale metamorfosi è nel Liber monstrorum: «Le sirene sono fanciulle marine che ingannano i naviganti col loro bellissimo aspetto ed attraendoli col canto; e dal capo all'ombelico hanno corpo di vergine e sono in tutto simili alla specie umana; ma hanno squamose code di pesce che celano sempre nei gorghi». Cfr. Franco Porsia (a cura di), Liber monstrorum, cit., I, VI.

37- Annibale (o Agostino) Carracci, Sirene, Studio per il camerino Farnese, 1599 circa, carboncino e gessetto su carta grigio-verde, Windsor Castle, The Royal Collection, inv. RL 2026. Le sirene, per nulla terrifiche, si limitano a suonare il flauto con quieta dolcezza.

38- Si pensi soprattutto ai celebri mostri di Roma (1495), di Firenze (1506) di Ravenna (1512), di Bologna (1514), di Freyberg in Sassonia (1522) e di Castelbaldo nel Polesine (1525) davanti ai quali ci si preoccupò «non solo di dare un senso profetico catastrofico globale..., ma anche, in molti casi, di fornire una lettura politico-profetica analitica delle singole membra deformi». La citazione è di Ottavia Niccoli, Profeti e popolo nell'Italia del Rinascimento, Roma-Bari. Laterza, 1987, p. 51. Il capitolo Mostri, divinazione e propaganda nei fogli volanti (pp. 47-87) tratta diffusamente gli aspetti divinatori legati all'apparizione di simili mostri.

39- Verissima relazione venuta a Lisbona dove s'intende la nascita di un putto di brutissima figura tutto armato, con una croce nel petto. Cosa degna d'esser letta, in Milano, Ferrara et di nuovo in Bologna per Giacomo Monti e Carlo Zenero, 1639, c. 2 r.

40- Ivi, c. 3 r. e v.

41- Ivi, c. 4 r. e v.

42- Narrazione delli maravigliosi prodigi apparsi nella città di Baiona in Francia. Dove s'intende li stupendi segni veduti in aria, con il nascimentod'un figliuolo che aveva trentatre occhi, e visse trentatre giorni, parlò tre sole parole di vera e gran considerazione. Et s'intende anco come i suoi genitori furono conosciuti esser cristiani, e principi di sangue reale, in Napoli, Brasciano et in Bologna, per Nicolò Tebaldini, 1622, c. 1 v.

43- Ivi, c. 3 r.

44- Ivi, c. 4 r.

La naissance d'un monstre espovventable. Engendré d'une belle & ieune femme, natifue de Mark, à deux lieuë de Calais, le vingt-troisiesme Fevrier 1649, a Paris, chez la veuve d'Anthoine Covlon, ruë d'Escosse aux trois Cramailleres, 1649, p. 5.

45- Ivi, p. 6.

46- Vero ritratto d'un spaventoso mostro nato nella città di Brünsvich li 12 di settembre 1625, di Dona Maria Chreulin, d'un povero manuale detto Gio. Bochberger. Con la narrazione di ciò che nella sua natività è successo e come egli ha parlato avanti il suo morire. Tradotto di todesco in italiano, in Vicenza appresso il Grossi e in Rovigo appresso Daniel Bissuccio, 1626, c. 2 r.

47- Ivi, c. 2 v. e c 3 r.

48- Tomaso Garzoni, Il Serraglio..., cit., p. 168.

49- Ivi, p. 169. («nel giorno della Conversione di S. Paolo nel Belgico, o in Cracovia secondo altri, nacque un putto d'honesti, e notabili parenti negro, et horrendo d'aspetto fuor di modo con gli occhi splendenti come fiamma, con la bocca et le narici di bue col dorso hispido, et peloso come di peli di cane, con un corno prominente dalla fronte con due faccie di Simia nel petto con due occhi di gatto nell'umbilico con due teste di cane minacciose a i gombiti delle braccia, et altre tante alle ginocchia co i piedi di cigno et così le mani con la coda di sopra riflessa, il quale visse quattro hore, et finalmente morendo mandò fuori queste parole, Vigilate, Dominus vester adventat»). Di questo mostro parlò anche Martin Weinrich nel suo De ortu monstrorum (1595).

50- Discorso sopra gli accidenti del parto mostruoso nato d'una ebrea nel ghetto di Venezia nell'anno 1575 a dì 26 di maggio. Dove si ragiona altamente del futuro destino de gli ebrei. Di nuovo ristampato e con le annotazioni di Gio. Giuseppe Gregorio cremonese ampliato, in Bologna, per Giovanni Rossi, 1576, c. 1 v.

51- Si rimanda al testo di Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi, 1996 e in particolare al paragrafo XXVIII del terzo capitolo, intitolato appunto Le nostre Indie, pp. 551-599.

52- Del mostruoso animale trovato da' soldati nelli monti di Carrigo principato di Catalogna. Del dottor Anselmo Ribero da Salamanca e tradotto in lingua italiana, in Padoa, et in Ferrara, per gl'eredi del Gironi, s.d., c. 2 r.

53- Ivi, c. 2 v.

54- Ivi, c. 4 r. e v. anche per le espressioni citate in precedenza.

55- Relazione del terribile et orrendo mostro comparso alli 28 del mese di gennaro vicino alla terra di S. Giorgio nell'Ungheriasuperiore..., in Vienna, Trento, ed in Bologna, per Giacomo Monti, 1686, con illustrazione del mostro, c. 2 r. Si tratta di una relazione che aggiunge la vicenda del mostro ad una precedente stampa che riguardava altri avvenimenti prodigiosi apparsi nelle stessa contrada ungherese: Relazione de i maravigliosi et orrendi prodigi apparsi in aria li undici e dodici maggio 1670 sopra la città di S .Giorgio nell'Ungheria superiore. Dalla lingua ungheria, tradotta in italiano, in Bologna per il Sarti, s.d.

56- Nuova, vera e distinta relazione di un orribile mostro maschio con figlio e figlia ritrovati nel distretto di Nazaret et uccisi il dì 22 gennaio 1728, in Palermo, Perugia, Macerata ed in Faenza, per l'Archi Impressore Camerale e del Sant'Uficio, s.d., c. 1 v.

57- Ibidem.

58- Distinto ragguaglio del funestissimo caso occorso nella città di Madrid, nella notte delli 15 dello scorso mese di settembre 1723, in cui si sente l'orribil temperio in essa occorso, con la morte di vari soggetti e di quelli salvatosi per misericordia divina, in Bologna, per Carlo Alessio e Clemente Maria Fratelli Sassi, 1723, c. 2 v.

59- La più celebre icona di san Cristoforo Cinocefalo è presso il Museo Bizantino e Cristiano di Atene. La leggenda del santo, un cinocefalo convertitosi al cristianesimo, è narrata nella Passio Sancti Christophori martyris, un testo del VII secolo presente in varie opere di patristica e che ebbe molta diffusione durante il medioevo.

60- Tomaso Garzoni, Il Serraglio..., cit., pp. 65-66. Il Cherchi, nell'introduzione a p. XVII ritiene erroneamente che l'opinione di Francesco Veniero fosse esattamente l'opposto.

61- Giornale circostanziato di quanto ha fatto la bestia feroce nell'Alto Milanese dai primi di Luglio dell'anno 1792 sino al giorno 18 Settembre p. p. In Milano, a spesa dello Stampatore Bolzani, 1792. La citazione è nell'introduzione Al lettore. Si fecero molte ipotesi su tale creatura rivelatasi infine un grosso lupo. Si veda sull'episodio anche lo studio di Stefano Nutini, «Ajuto che la bestia viene»: Timori popolari e paura sociale in un episodio lombardo del 1792, in Laura Guidi - Pellizzari Maria Rosaria - Valenzi Lucia (a cura di), Storia e paure. Immaginario collettivo, riti e rappresentazioni della paura in età moderna, Milano, Franco Angeli, 1992, pp. 352-368.

62- Corrado Bologna, Enciclopedia Einaudi, voce «mostro» (pp. 556-580), p. 576. L'espressione tra virgolette riportata da Bologna è di Gian Piero Jacobelli, L'Outer space, per un'analisi dei sogni spaziali, in «Futuribili», n. 23, 1970, (pp. 58-66), p. 61.




Torna all'homepage




Creative Commons License
Questo testo è pubblicato sotto Licenza Creative Commons.